“Cresce il clericalismo, che è una perversione della Chiesa”. Questo pericolo segnalato da papa Francesco nella sua risposta a braccio a Fabio Fazio non è stato approfondito. Forse perché i commenti sono rimasti sulla forma più che sul contenuto dell’intervista, forse perché l’osservazione non è nuova nel magistero di Bergoglio. Anzi, c’è un’insistenza su questo problema – soprattutto negli ultimi due anni di pontificato – che conferma quanto papa Francesco lo ritenga esiziale per la Chiesa del futuro, al punto da riprenderlo e precisarlo come una priorità. Probabilmente teme anche di essere frainteso.
Non dobbiamo intendere il termine in senso generico (come se fosse semplicemente il contrario di anticlericalismo) e tanto meno in senso storico-politico, come se il clericalismo fosse ancora oggi lo schierarsi nell’azione politica a favore della gerarchia ecclesiastica, godendone così del suo appoggio.
Clericalismo non è nemmeno – come talvolta siamo portati a credere – un atteggiamento esteriore che passa dall’esibizione di certi segni dell’autorità ecclesiale o dall’utilizzo di rigide forme reverenziali appartenenti ad altri secoli o altre culture.
Già nella sua enciclica fondamentale, Evangelii Gaudium, Francesco aveva usato questo termine ritenendolo una delle cause per cui i laici cristiani erano tenuti “ai margini delle decisioni”. Ma è stato il 23 dicembre scorso, parlando alla Curia romana, che Francesco ha dato la sua interpretazione più autentica di clericalismo, proprio a proposito del Sinodo che chiama ad ascolto dialogante: “Se ognuno rimane chiuso nelle proprie convinzioni, nel proprio vissuto, nel guscio del suo solo sentire e pensare, è difficile fare spazio a quell’esperienza dello Spirito che, come dice l’apostolo, è legata alla convinzione che siamo tutti figli di ‘un solo Dio, Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti’”, come si legge nella Lettera agli Efesini. “Tutti non è una parola fraintendibile!”, ha esclamato il Papa, aggiungendo quest’altro passaggio decisivo: “Il clericalismo che come tentazione perversa serpeggia quotidianamente in mezzo a noi ci fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire”.
Insomma, il clericalismo è l’opposto della sinodalità, la dinamica per cui “siamo tutti membri del santo popolo di Dio”. Dentro la Chiesa non possono esserci posizioni di indifferenza ma neanche di supremazia (“come se il ministero potesse essere travisato per imporre la propria forza”, si legge in un documento sinodale latinoamericano) o strategie di aggiramento o di presa di distanza. No, i pastori non devono operare “per il popolo, ma sempre con il popolo”, e la comunità deve agire “mai senza il parroco”.
Nel Cammino sinodale non si riproduce un parlamentino ecclesiale; sarà inutile riproporre la contrapposizione tra preti e laici (uomini e donne), a rivendicare fette o ruoli di potere, se è vero che – secondo il Vangelo – “tra voi non deve essere così: ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo”.
Il richiamo preliminare riguarda anche i laici fin troppo deferenti che assumono posizioni clericaliste (“ma il prete – si giustificano – ne saprà sempre di più di me…”), scaturite da una visione ecclesiale non ancora matura perché non valorizza le diverse ministerialità nella Chiesa. Eh sì, sarebbe già un primo risultato se il Cammino sinodale ci aiutasse a guarire tutti dal clericalismo.
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