Nord-occidentale, grande come Italia, Germania, Francia e Spagna messe insieme. Lo Xinjiang, che confina col cuore dell’Asia musulmana, gode di speciale autonomia e conta poco meno di 24 milioni di abitanti. Gli uiguri sono il 45% circa, ma nel ’49 erano il 75%. Le persecuzioni, nel corso degli anni, li hanno drasticamente ridotti a favore dell’etnia maggioritaria cinese, gli han, che erano il 7% e ora sono il 40%. Dati più eloquenti di ogni discorso. Una operazione di pulizia etnica attuata con le repressioni e con l’insediamento massiccio nella regione di contadini han provenienti da altre parti del Paese e costringendo molti uiguri ad emigrare. La regione è molto importante dal punto di vista strategico ed economico. Vi si produce l’80% del cotone cinese che corrisponde al 22% della produzione mondiale. Negli ultimi vent’anni le proteste e le rivolte degli uiguri in difesa dei propri diritti sono state duramente represse. La situazione è peggiorata con la politica ancor più centralista dell’attuale leader cinese Xi Jinping, salito al potere nel 2013. Le Nazioni Unite, Amnesty International, Human Rights Watch hanno documentato e denunciato le spietate repressioni. Ben 8.000 moschee sono state distrutte, a scuola la lingua uiguri è stata emarginata, il controllo della vita quotidiana di ogni persona, grazie anche alle nuove tecnologie utilizzate massicciamente, è diventato asfissiante. Secondo le Nazioni Unite, nel 2018 almeno 1 milione di uiguri (ma secondo alcuni rapporti sono molti di più) erano detenuti nei campi di internamento per essere “rieducati”.
In questi campi di concentramento gli uiguri vivono ammassati in condizioni di vita e di salute precarie, subiscono abusi psicologici e fisici, è impedito loro di comunicare con i familiari. Le autorità cinesi dicono che in questi campi la “formazione” ha lo scopo di “sradicare dalla mente pensieri di estremismo religioso e terrorismo violento, e curare le malattie ideologiche”. Puro linguaggio staliniano o da rivoluzione culturale maoista.
In una intervista all’agenzia di stampa Xinhua del 16 ottobre 2018, Shohrat Zakir, presidente dello Xinjiang e vicesegretario del Partito comunista della regione, ha dichiarato a proposito degli uiguri detenuti nei campi di concentramento: “Grazie alla formazione professionale, gli allievi hanno avuto l’occasione di riflettere sui loro errori e cogliere l’essenza del terrorismo e dell’estremismo. Hanno migliorato la loro coscienza nazionale, la coscienza civile, la coscienza dello Stato di diritto e hanno aderito alla comunità della nazione cinese. Sono in grado di distinguere meglio il bene dal male e di opporsi al pensiero estremista … Hanno fiducia nel futuro” (da Gulbahar Haitiwaji e Rozen Morgat, Sopravvissuta a un gulag cinese. La prima testimonianza di una donna uigura, add editore, 2021). Dichiarazioni che ci riportano alla stagione dei gulag.
Nel 2021 il prestigioso premio giornalistico Pulitzer è stato assegnato al sito internet BuzzFeedNews e all’architetta britannica Alsion Killing. Utilizzando sofisticate tecniche di analisi satellitare delle strutture architettoniche, e importanti interviste, hanno rivelato, attraverso una serie di reportage pubblicati tra l’agosto e il dicembre 2020, l’esistenza nello Xinjiang di 268 campi di concentramento dove sono internati gli uiguri e altre minoranze religiose. La Lega Araba e molti Paesi musulmani non hanno mai protestato contro il genocidio culturale degli uiguri. Anzi, l’Arabia Saudita e il Pakistan hanno difeso la Cina, che ha negato le repressioni, al Consiglio dei diritti
umani delle Nazioni Unite.
Non è che in Arabia Saudita e in Pakistan i diritti umani siano rispettati. I regimi si sorreggono a vicenda. Ma noi, che serva o non serva, Olimpiadi o non Olimpiadi, non smettiamo mai di denunciare le loro disumanità. Non smettiamo mai, come diceva Bernanos, di “imbrattare d’inchiostro il volto dell’ingiustizia”.
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