Al bivio fra felicità e fallimento

«Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è sua fiducia» Ger 17,7. Vignetta di Fabio Vettori

Il desiderio di felicità è profondo ed insopprimibile, ogni uomo ed ogni donna lo portano in cuore. Confessava S. Agostino 1600 anni fa: «Ci hai fatti per te, o Signore, ed il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te». Le letture di questa domenica ci pongono davanti ad un bivio, che si apre su due strade: la prima è quella dell’abbandono fiducioso in Dio e porta alla vita felice; la seconda è quella dell’affidarsi a realtà che vogliono sostituirsi a Dio (idoli), questa seconda strada porta a un surrogato di felicità, porta all’infelicità e al fallimento esistenziale. «Beatitudini e guai, benedizione e maledizione» sono termini tipici del linguaggio sapienziale, che medita sulla vita umana, e cerca di scoprire quando la nostra vita è realmente felice e quando invece non lo è.

«Beatitudini e guai, benedizione e maledizione» non sono il bastone e la carota con cui un Dio lunatico e violento ci indurrebbe a fare ciò che vuole lui e ci dissuaderebbe dal fare ciò che lui non vuole (e magari vorremmo noi!). «Beatitudini e guai, benedizione e maledizione» nel linguaggio sapienziale sono espressioni che riflettono sugli effetti delle nostre scelte esistenziali fondamentali. Geremia (prima lettura) dipinge l’esistenza di chi confida in realtà effimere, temporanee e transitorie paragonandola al tamerisco, una pianta della steppa mediterranea, che non avendo un corso d’acqua al quale attingere vita, risulta poi priva anche della possibilità di fruttificare.

Al contrario, l’uomo che confida in Dio: «è come un albero piantato lungo l’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre i suoi frutti» (Ger 17,8). Come può un uomo riconoscere se nella sua vita confida in Dio oppure no? Come può riconoscere se sta percorrendo la via verso l’eterna felicità o se ha piuttosto imboccato quella della tristezza eterna?

Secondo il Vangelo di Luca il povero, l’affamato, colui che piange ed è perseguitato per la sua fedeltà a Cristo, costui si trova a consegnare con fiducia la propria vita nelle mani di Dio ed è per questo già sulla via della beatitudine. Al contrario il ricco, il sazio, il gaudente ha già la sua consolazione, non percepisce più se stesso come creatura bisognosa di ricevere da Dio, ogni istante, il dono della vita, presume di essere padrone assoluto di sé, del prossimo e del mondo.

L’apostolo Paolo (seconda lettura), poi, non ha paura di ricordare ad ogni uomo e ad ogni donna che la nostra felicità si realizza in pienezza con la partecipazione a quel mistero di vita assoluta che è la risurrezione di Gesù Cristo: è questa la via alla comunione con Dio, alla vita divina, alla piena beatitudine che Gesù ha aperto e percorso per noi.

VUOTI DI COSE, PIENI DI DIO
Come è possibile che i poveri siano felici? È possibile. Esistono persone estremamente povere di oggetti, ma ricche di Dio. Persone capaci di perdonare, di condividere, di amare come Dio ama. Capaci di fare spazio in luoghi minuscoli, capaci di imbastire un pranzo abbondante a partire dalla dispensa quasi vuota. Qualche anno fa io e mio marito decidemmo di vendere la tv che ci rubava troppo tempo e, con i soldi ricavati, partimmo per vivere un mese di volontariato in un lebbrosario in Tanzania. Il sacerdote africano che lo dirigeva ci fece dormire in quella che scoprimmo solo alla fine essere stata la sua stanza. Ma allora dove aveva dormito lui, per tutto il mese? L’ultima sera lo seguii di soppiatto per scoprire che, per far posto a noi, per un mese intero aveva dormito nel pollaio, mettendo a terra un pezzo di gommapiuma lisa. Beati voi poveri, capaci di fare spazio, perché vostro è il regno di Dio.

Lorena Martinello

(Sul calendario “Due piccoli pesci 2022” Vita Trentina Editrice)

 

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