Caro direttore,
la notizia della morte di don Roberto Marchesoni e la celebrazione del suo funerale sono stati momenti che mi hanno permesso di andare alla radice dell’esperienza che mi ha aiutato a dare un senso pienamente esistenziale alla mia vocazione quando ero ancora seminarista, generando una passione grande a dispetto di tutto quello che la realtà mi presentava e mi presenta ogni giorno. Tutto questo lo devo all’incontro imprevisto con l’esperienza del Movimento di Comunione e Liberazione che ho conosciuto attraverso l’allora seminarista e oggi sacerdote don Giorgio Maffei.
L’impatto con la personalità di don Roberto, che sfuggiva da tutti gli schemi di quello che papa Francesco descrive come clericalismo, mi ha introdotto in un’esperienza di fede capace di valorizzare tutto, senza perdere il tempo in sterili analisi che non riuscivano a smuovere la mia vita.
Dentro il clima che vivevamo frequentando le Magistrali, dove l’ideale era la lotta contro il sistema e il sogno coincideva con una libertà individuale che riconosceva nell’anarchia la possibilità di una vera realizzazione personale e sociale, questo sacerdote con altri amici ci testimoniava che solo Gesù presente qui e ora attraverso la Chiesa, ci dava la possibilità di realizzare in forma piena quegli ideali e quelle esigenze che abitano il cuore di tutti noi e che, in forma equivoca, cercavano risposta in soluzioni parziali e quindi destinate al fallimento.
Nel tempo ho imparato da lui che l’atteggiamento dello stupore è l’unico che ci permette di accostarci alla realtà, superando i preconcetti che molte volte creano distanze fra le persone. Al desiderio di una libertà individuale e quasi anarchica, ho riscoperto la grandezza e la bellezza dell’appartenere e del seguire a partire da un nuovo concetto di autorità, vissuta non come possibilità di potere, ma di servizio capace, per grazia di Dio, di generare figli e non sudditi.
Attraverso gli incontri che facevamo ogni lunedì con gli altri amici sacerdoti del Movimento, il carisma di don Giussani entrava nel mio modo di essere attraverso la testimonianza e la paternità di don Roberto che non mancava di chiamarmi poi personalmente per ascoltarmi e anche per aiutarmi a verificare nell’esperienza quello che insieme ci scambiavamo, perché non rimanesse qualcosa di teorico.
Ricordo come è rimasto sorpreso quando gli ho parlato del mio desiderio e disponibilità per essere missionario in Brasile, ma poi lo ha accettato come un frutto della dimensione missionaria alla quale sempre ci ha educati.
La distanza geografica non ha diminuito il nostro rapporto e gli aspetti fondamentali che ho imparato da lui rimangono come punti di riferimento nella mia vita personale e pastorale, specialmente il desiderio profondo di far conoscere Gesù come Colui che realizza pienamente l’umano e la carità come dimensione essenziale del rapporto con Cristo che ci permette di incontrare tutti e di valorizzare il bene presente in ciascuno.
Se posso riassumere quello che è stato per me e spero continui ad essere ancora per la sua intercessione, mi permetto di usare una frase di don Carron: “Don Roberto, con la tua paternità, mi hai aiutato a essere figlio nel Figlio e per questo il seguire non è mai stata un’obiezione, ma la condizione per fare l’esperienza del centuplo qui in terra, per essere poi accolti nella vita eterna, dove per l’intercessione di Maria, crediamo tu possa già fare l’esperienza di pienezza che hai sempre cercato di vivere e testimoniare”.
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