Il Presidente che verrà, una candidatura di garanzia?

La prima pagina de “Il Fatto quotidiano” del 26 gennaio 2022

Se si vuol capire quel che sta accadendo con l’elezione del successore di Sergio Mattarella bisogna porre attenzione al fatto che ci troviamo di fronte ad una crisi di sistema. Già la soluzione data alla agonia del Conte 2 rivelava questa realtà: i partiti non erano solo incapaci di trovare una maggioranza e al massimo si arrabattavano in operazioni di trasformismo assai poco decorose, ma avevano poi dovuto accettare la proposta che allora venne dal Quirinale di dar vita ad un governo di quasi unità nazionale.

Non si trattava di un esecutivo “tecnico”, ma di uno squisitamente “politico”, sebbene guidato da una personalità che non usciva dalle filiere dei dirigenti di partito. Era infatti non un governo di decantazione delle lotte politiche, come sono appunto i governi tecnici, ma un esecutivo che doveva prescinderne per realizzare l’obiettivo di lungo periodo di portare l’Italia fuori dalle sue numerose crisi. Verrebbe da dire: più politico di così…

Ora, come abbiamo già avuto occasione di scrivere, non essendo la crisi del sistema dei partiti risolta, si è tentato di risolvere tutto semplicemente congelando la situazione, cioè trasformando ex post il governo Draghi in un esecutivo di attesa, sebbene nessuno sia in grado di dire in attesa di cosa. è merito storico di Mattarella non avere consentito questa soluzione ipocrita, anche a costo di correre il rischio che la crisi si avviluppasse su se stessa. Così è sembrato con l’incredibile trovata di Berlusconi di candidarsi per il Colle trovando la compiacenza di partiti che tutto sommato contavano che così si potesse guadagnare del tempo per le soluzioni (tanto tutti sapevano che quella del signore di Arcore era una piccola sceneggiata). Aveva aiutato la crisi di M5S, privo di guida politica e di prospettive, mentre il PD nella prima fase stava a guardare.

Secondo alcuni erano le condizioni adatte per favorire l’ascesa di Mario Draghi al Quirinale, sottovalutando che un sistema di partiti in crisi, ma non ancora alla canna del gas, non accetta di sottoscrivere la sua fine emblematica mettendo a capo dello Stato un politico estraneo alle sue filiere di produzione di classe dirigente (perché questo significa avere a che fare con persone che non si sentono vincolate alle sue solidarietà). Infatti, salvo colpi di scena dell’ultimo minuto, la maggior parte delle forze parlamentari ha fatto muro contro l’ipotesi che fosse Draghi a succedere a Mattarella.

Il fatto è che le alternative di un certo peso erano scarse, soprattutto nel campo di un centrodestra che è convinto di essere maggioranza nel Paese e di avere molta forza anche nelle Camere. Sono entrambe convinzioni discutibili dal punto di vista fattuale, ma vengono suffragate con la frammentazione che domina nel campo avverso, sicché la somma di questi frammenti non si sa se, quando e quanto sia possibile. Difficile negare che ci siano ragioni per vederla così, considerando come il centrosinistra si sta muovendo nel frangente attuale. A parte Letta che agisce in maniera responsabile e con una visione, peraltro sostenuto solo fino ad un certo punto dal suo partito, le altre componenti del centrosinistra fanno più confusione che politica.

Si è così davanti al problema che tutti temono: se Draghi cessa di stare alla testa di questo governo, è più che probabile che venga meno il progetto di transizione politica, anziché occasionale che è quanto serve al Paese in questo momento. Un ritorno ad un governo lottizzato fra i partiti è quanto di meno auspicabile in un anno e forse più di battaglie elettorali. Tutti abbiamo visto con che strumenti e con che pochezza di progettualità politica siano state combattute le ultime che si sono tenute. Figurarsi quelle future, soprattutto le elezioni politiche che dovranno misurarsi col taglio di un terzo dei posti disponibili e con l’enigma di una riforma elettorale che si fatica a fare e di una legge elettorale vigente che è in grado di produrre risultati destabilizzanti.
Congelare Draghi e questo governo è già un sacrificio non piccolo per i partiti che fanno parte della coalizione e che hanno ciascuno ragioni di insoddisfazione, specie verso alcune componenti tecniche. Trovare per il Quirinale una candidatura di garanzia per tutti in termini di mantenimento del sistema piace fino ad un certo punto: benissimo se la garanzia riguarda lo spazio di demagogia più o meno spinta dei partiti, malissimo se tutela le prerogative di Draghi nel dirigere la nave Italia fuori dalle secche della sua crisi, perché ciò implica un ripensamento degli spazi da lasciare ai partiti.

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