A stare a quel che appare, tutto nella battaglia per il Quirinale ruoterebbe intorno a Berlusconi: se si candida davvero c’è un certo scenario, se rinuncia alla candidatura se ne apre un altro. Considerando le cose superficialmente è senz’altro così, anche se in entrambi i casi si tratta di scenari più che aperti e problematici. Se mantiene la candidatura non si sa se riuscirà ad essere eletto e allora chissà cosa succede dopo. Se rinuncia alle attuali pretese può reclamare il privilegio di essere lui ad indicare il candidato adatto e allora chissà come va nel centrodestra che non è esattamente unito come la famosa falange macedone.
Insomma è un bel caos. A guidarlo sta l’ossessione del centrodestra di mostrare che è in grado di imporre un candidato che porti visibilmente la sua targa. Ma è qui che casca il famoso asino. Il centrodestra non ha un nome che si imponga tanto al suo interno quanto verso le altre forze politiche. Sbarazzarsi dell’ombra di Berlusconi non è semplice, perché dopo averlo presentato come un grande statista si renderebbe necessario trovare un sostituto che potesse ambire a quelle stesse credenziali che hanno cucito addosso al Cavaliere: lunga esperienza di governo, ricchezza di relazioni internazionali importanti, ruolo centrale nella storia degli ultimi vent’anni.
Non ci vuol molto per dire che nessuno dei nomi che vengono fatti circolare come candidati in pectore appartenenti all’area di centrodestra ha tutte quelle caratteristiche in maniera credibile. Ma a quella componente scoccia ammettere che invece il centrosinistra qualche freccia di quel tipo al suo arco ce l’ha, per esempio Giuliano Amato (un poco meno Paolo Gentiloni). Ormai l’ossessione di dimostrare che adesso è la destra ad essere centrale nella nostra politica sta rendendo un cattivo servizio ai capi di quell’area.
Così più d’uno fa notare che alla fine l’unico personaggio che pur avendo uno standing assolutamente comparabile a quello costruito (artificiosamente) intorno a Berlusconi non sia targabile come “di sinistra” è Mario Draghi. Il problema è ovviamente che, come abbiamo scritto in tempi precoci, puntare su quella soluzione significa avere una proposta su cosa fare del governo, che inevitabilmente verrebbe a cadere. Qui bisogna richiamare qualche dato giuridico. Se Draghi diventa presidente della Repubblica deve dimettersi, ma se si dimette un presidente del Consiglio automaticamente cade con lui il governo e bisogna per forza di cose farne uno nuovo. Coi tempi che corrono è difficile immaginare che si spicci la cosa promuovendo banalmente un esecutivo fotocopia di quello esistente, semplicemente con un diverso premier.
Si capisce quale sia il tema che arrovella il ristretto gruppo di dirigenti politici che si occupa di trovare una strategia per far uscire il Paese dalle strettoie che ha davanti, dentro cui stanno il più di un centinaio di opere del PNRR che bisogna far marciare entro metà anno se si vuole la tranche prevista del Recovery europeo (non stiamo parlando di cosucce secondarie). Considerando che al massimo fra un anno e qualche mese bisognerà affrontare il giudizio delle urne per le politiche, i partiti non vogliono certo arrivarci avendo alle spalle la perdita di quei cospicui finanziamenti.
Questo finisce per riportare tutto alla casella di partenza: non muoviamo nulla nel governo in carica e troviamo un presidente della Repubblica che sia in grado di contribuire al mantenimento dell’attuale equilibrio precario almeno fino al termine di questa legislatura. Come si può intuire è questo che fa saltare tutti gli incastri. Se si mette sul Colle un presidente “divisivo” la legislatura salta: non solo non si correrebbe il rischio con Berlusconi, ma non è consigliabile neppure provare a risolverla con un colpo di mano da una parte o dall’altra dopo un certo numero di scrutini. è vero che lo si è fatto più d’una volta nella nostra storia, ma allora non c’erano né il piano di Recovery europeo (e il nostro bilancio non era nelle condizioni critiche attuali), né la gestione di una pandemia con tutti gli sconquassi che ha comportato e che prevedibilmente comporterà ancora.
Sarebbe sciocco sostenere che i vertici delle forze politiche ignorano questi problemi. C’è qualche componente di irresponsabili in tutte, ma la maggioranza ha ben presente il quadro in cui deve operare. Solo che non si trova la forza di ammettere che se ne esce solo accettando che in questa battaglia non vi siano né vinti, né vincitori e che dunque bisogna sbarazzarsi della caterva di aspiranti tattici e strateghi che continuano a soffiare sui vari fuochi pensando che stiamo giocando ad una via di mezzo fra Risiko e battaglia navale, mentre invece c’è di mezzo il futuro della nostra comunità sociale e politica.
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