Ventuno parole, una per ogni lettera dell’alfabeto, per raccontare la scuola che si nasconde dietro i programmi e gli insegnamenti. Silvia Defrancesco, insegnante di Fisica al liceo Galileo Galilei di Trento in pensione da un anno, ha raccontato così la sua esperienza dietro la cattedra. Nelle ventuno parole scelte per fornire un’immagine variopinta del mondo scolastico – impossibile da rinchiudere in un testo compatto, in un racconto con un inizio e una fine – Defrancesco offre uno spaccato della sua esperienza.
Il risultato è “A scuola ho imparato l’alfabeto”, libro stampato con Amazon, che si trova online e nelle librerie Ancora, Ubik e Il Papiro. Il lavoro di scrittura è iniziato l’estate scorsa, “la prima estate – spiega Defrancesco – che non avrei passato a prepararmi per un nuovo anno scolastico”. Un periodo trascorso a ricordare e a mettere in fila suggestioni ed esperienze. Storie reali, mentre, ovviamente, protagoniste e protagonisti hanno nomi di fantasia, che cominciano con la stessa lettera alla quale è dedicato il capitolo. “Con alcune lettere, trovare un nome proprio di persona è stato difficile”, commenta ridendo Defrancesco, che dedica il libro al marito Marco, ai figli e “a tutte le donne e gli uomini che ho conosciuto adolescenti”.
Il volume si apre con la “A” di “amore”: perché quando sentimenti e storie nascono tra i banchi gli insegnanti riescono a leggerli sui volti degli alunni, talvolta luminosi, talvolta rabbuiati. Un capitolo, poi, è dedicato alla parola “disabilità”, termine dietro al quale, spiega l’autrice, ci sono, anche a scuola, tantissime situazioni diverse. Ci sono Daniele e Donato, che affrontano la loro dislessia in maniera contrapposta: mentre uno la rivela dopo quattro anni ai suoi compagni di classe, l’altro la racconta sin da subito con naturalezza. E poi c’è Diana, tetraplegica, che non perde il suo animo e la sua luminosità, ma affronta la condizione di “debolezza” per trasformarla in forza: studentessa brillante, si laurea in Informatica e ottiene una borsa di studio di Google.
Ma a scuola ci sono anche le risate. Ecco quindi che compare la “I” di “ilarità”, che riesce a stemperare la tensione che precede o accompagna le interrogazioni. E gli stranieri? “Una parola scorretta, perché – spiega l’autrice – tra i banchi tutti condividono il medesimo percorso di formazione”. Esistono, scrive, solo i ragazzi e le ragazze che non hanno la cittadinanza italiana; e qui s’inseriscono alcuni racconti sulla difficoltà di partecipare appieno alla vita scolastica, che comprende anche i viaggi d’istruzione. C’è poi la “O” di “occhi”. “Gli studenti ci guardano, ma è anche vero che noi guardiamo loro”, conclude Silvia Defrancesco. “Lo sguardo è fondamentale per riuscire a instaurare una relazione, ma anche per capire in quale fase della comprensione e dell’apprendimento sono i ragazzi”.
Il ricavato di “A scuola ho imparato l’alfabeto” andrà all’associazione “Nyumba ali”, che cura e istruisce bambini e ragazzi disabili in Tanzania.
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