Sta per arrivare alla conclusione la 69esima edizione del Trento Film Festival che anche quest’anno, nonostante la pandemia, è riuscito, all’ultimo momento, ad andare in sala, oltreché in streaming.
Sabato 8 maggio, in mattinata, verranno comunicati i vincitori dei tanti premi previsti tra i quali i più ambiti, le Genziane d’oro e d’argento.
Dei 23 documentari in concorso (tra lungometraggi e corti) sui quasi cento film in programma nelle varie sezioni, buona parte è già passata sullo schermo del cinema Modena.
Dal “mazzo”, vanno segnalate alcune sorprese che potrebbero concorrere a qualche riconoscimento importante anche se le “chiacchiere” da festival vedono nel doc sullo e con lo scrittore Paolo Cognetti (“Sogni di Grande Nord”) alla ricerca della propria wilderness e in quello ambientato in Groenlandia con protagonista l’alpinista Robert Peroni (“La casa rossa”) tra i papabili più accreditati ai premi di maggiore prestigio.
“Pushed up the mountain” dell’angloamericana Julia Haslett è un film intimo che prendendo come scusa la possibile estinzione del rododendro, tra Cina e Scozia, riflette sui cambiamenti climatici e mette al centro della storia, con tocco lieve e partecipe, ciò che c’è di più umano in alcuni scienziati che si occupano della sopravvivenza della pianta.
Un gruppo di studenti universitari polacchi degli anni Ottanta è invece protagonista di “Godspeed, los polacos” di Adam Nawrot, filmaker e fotografo di New York. Appassionati di kayak, riescono a espatriare per percorrere il torrente che sta al fondo del più profondo canyon del mondo, nella valle del Colca, in Perù. É un viaggio avventuroso ed errabondo tra Stati uniti e America Latina, con immagini d’epoca e inserti d’animazione, dal montaggio serrato, intervallato dalle interviste con quei ragazzi (al tempo) che ora sono uomini adulti e hanno scelto di vivere negli States. Perché mentre loro scendevano i torrenti a casa scoppiava la “rivoluzione”, Solidarnosc, sostenuto dal papa polacco Giovanni Paolo II, lottava contro il regime comunista in un mondo diviso in due dalla Guerra fredda. Loro sostenevano il movimento di Walesa stando dall’altra parte del mondo, promuovendo marce e proteste, facendo andare su tutte le furie i governanti di Varsavia. Il film offre uno spaccato inedito di quel periodo, oltreché di gioventù e di voglia di vivere, costruito con grande abilità e suspence dal regista americano.
Alice Cano Menoni è uruguaiana ma di chiare origini italiane. “Bosco” sperso sull’Appennino, in provincia di Massa Carrara, è il paese dal quale provengono i suoi avi dove adesso, a fronte di neanche una quindicina di abitanti, perlopiù anziani, sono oltre 300 i defunti sepolti nel cimitero. La regista compie un andirivieni tra Montevideo, mettendo in primo piano il nonno ultracentenario e l’Italia.
È una ricerca delle proprie radici, uno scavo dentro i sentimenti più profondi di una piccola comunità, che arriva lontano, fin dall’altra parte dell’Atlantico. Una favola filmata nel corso di ben 13 anni che racconta momenti tristi ma anche lieti degli abitanti del borgo lungo le stagioni della vita e i cambiamenti che si verificano, sia a livello personale che naturale, con i castagneti che si “mangiano” il paese, perché non più curati e seguiti.
Com’era previsto ha colpito e commosso molti trentini – soprattutto gli spettatori dai capelli bianchi – il corto d’animazione “Mila” in cui la regista trentina Cinzia Angelini, attiva a Los Angeles, ha ripreso i racconti della madre sui bombardamenti del 1943 a Trento: una città dolente, mai vista così, in un’inedita e suggestiva versione animata.
Tra i corti in concorso, in “Le grand viveur” di Perla Sardella, le immagini d’epoca dell’operaio e cacciatore Mario Lorenzini ritraggono la comunità Walser della piemontese Valsesia a cui appartiene. Con un taglio che mette in evidenza anche chi, uomo solitario ed enigmatico, sta dietro alla cinepresa.
Lascia una recensione