E adesso, liberi tutti!? Eh no, assolutamente no.
Sarebbe un errore epocale ritenere che l’accelerazione dei vaccini possa autorizzare il venir meno delle misure di prevenzione. Come se questo 25 aprile con i “Decreti riapertura” si potesse trasformare in una festa della liberazione anche dal Covid, mentre il virus invece è ancora tra noi con le sue enigmatiche varianti.
È più che comprensibile il gesto liberatorio – fissato per la copertina dal nostro Gianni Zotta – di chi ha voluto immortalare il momento preciso della vaccinazione, in coda sotto il tendone di via Fersina: esprime sollievo, forse anche riconoscenza per un giorno a lungo pazientemente atteso.
Più che un egoistico “si-salvi-chi-può”, quel selfie familiare rappresenta il sano desiderio di condividere un passaggio gioioso. E augurare anche ad altri lo stesso traguardo, quasi che la copertura vaccinale possa produrre un contagio benefico, quello di una fiducia nel futuro. Speriamo duratura. Quanto appare invece perniciosa è l’euforia bambinesca di chi esulta senza misura e abbatte gli steccati del distanziamento ancora ben fissati dalla legge: si nasconde dietro la scusa del “così fan tutti”, come un pecorone che non vede quanto è ancora lontana l’immunità di gregge (il 90% della popolazione vaccinata) auspicata solo per autunno, mentre un ritmo costante di vaccinazioni potrebbe consentirci a luglio l’immunità di massa (il 55-60% della popolazione immunizzata) in grado di legittimare altre riaperture in sicurezza.
L’euforia, che in questi primi giorni di anticipo trentino abbiamo visto dilagare nei gruppi di amici o familiari (non solo giovani), ci inganna perché è una subdola alleata del virus.
Lo abbiamo constatato anche dopo i ritrovi di Pasqua: se dimentichiamo o abbassiamo le mascherine, ad esempio, torniamo a dare via libera alla circolazione del virus. Se pensiamo che baci e abbracci siano magicamente “sdoganati” da un decreto che aumenta sì le zone gialle ma non abolisce giustamente tante altre regole severe, allora rischiamo di ripetere l’errore dell’estate scorsa, quello che abbiamo pagato nel secondo lockdown, ancora più deprimente del primo per il nostro Prodotto Interno Lordo e per la nostra psiche.
L’euforia inganna, perché non dobbiamo dimenticare che siamo di fronte ad un “rischio calcolato”, per dirla col presidente Draghi: calcolato sì – o meglio, strettamente dipendente dai nostri comportamenti sociali – ma sempre un rischio, dalle conseguenze che potrebbero essere insostenibili proprio mentre il ministro dell’Economia prefigura un secondo semestre in piena ripresa.
Dobbiamo ripeterci che per tutti noi non è passata l’ora della responsabilità. Che significa, dal latino, “capacità di rispondere alle conseguenze delle nostre azioni”. Sul nostro corpo e la nostra salute, ma anche sul prossimo a noi vicino . Sui giovani che possono tornare fra i banchi ma non devono fare ammucchiate; sui clienti che ridanno fiducia ai ristoratori, ma non devono accorciare le distanze; sui visitatori che torneranno nei luoghi pubblici e nelle Rsa, ma senza togliersi le mascherine e dimenticare di igienizzarsi.
Questa responsabilità ci è richiesta da chi ancora lotta con l’ossigeno nelle corsie ospedaliere, da chi ha visto segnata la sua vita dalla perdita di una persona cara.
Secondo lo studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature e ripreso da Tgr Trento, solo quando avremo vaccinato tutte le persone sopra i 60 anni avremo una riduzione drastica dei decessi e potremo riaprire in sicurezza: “Solo con restrizioni adeguate e forti – sostiene la curatrice Giulia Giordano, ricercatrice dell’Università di Trento – possiamo ridurre i decessi molto di più di quanto non possiamo fare con la campagna vaccinale”.
Ma c’è anche una responsabilità globale, che ci viene richiesta dai popoli del Sud del mondo: “pagano” ogni giorno con vittime innocenti l’ingiustizia economica del turpe commercio dei vaccini a livello internazionale, come ha denunciato con forza il nostro Arcivescovo domenica scorsa in Duomo.
Una proposta, infine, diretta alle nostre comunità cristiane che possono dare un esempio di responsabilità anche sul piano civile, prevedendo nel mese di maggio una sottolineatura liturgica, una solennità speciale: dedicare una Messa domenicale, o un rosario serale, a ringraziare il Signore per questa fase nuova, per queste prudenti riaperture, rinnovando le promesse a “prendersi cura” degli altri, vicini e lontani. Facendo memoria però di dolori e fatiche vissute in questi 16 mesi e di quanto siamo chiamati a vivere d’ora in poi, affinché tutto “non torni come prima”. Una domenica nel clima ancora pasquale: un richiamo alla gioia responsabile, per dissuadere dall’euforia incontrollata.
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