All’affacciarsi del nuovo anno dobbiamo constatare che ci sono realtà alle porte nord-orientali dell’Italia e lungo il crinale europeo che vengono sottaciute, di cui si conosce poco ma che dimostrano situazioni al limite e una evidente e continua serie di violazioni dei diritti umani più elementari.
Lungo quella che viene denominata Rotta balcanica, a partire dalla Turchia, alla Grecia e fino a estesi territori della Bosnia Erzegovina, Serbia, Croazia e Slovenia continua un flusso ininterrotto, un andirivieni di profughi, carovane umane dolenti composte da donne, bambini e uomini in fuga. Afghani, pakistani, siriani, irakeni, gente di ogni nazionalità che viene continuamente rimbalzata avanti e indietro; aspirano al “game”, per niente un gioco (se non che in gioco ci sono le loro vite), ma il passaggio della frontiera verso l’Unione europea, lungo i sentieri che si inerpicano tra le montagne e adesso col freddo dell’inverno – con la pioggia e con la neve – in condizioni terribili.
Con i centri di accoglienza che tendono ad essere chiusi e dove comunque sono state introdotte forti limitazioni, complice o con la scusante della pandemia quando è stato introdotto lo stato di emergenza, i profughi si trovano costretti a cercare ripari di fortuna di ogni tipo. Cercano rifugio in caseggiati sventrati dal tempo della guerra, nelle vetuste masserie abbandonate, in provvisori e precari accampamenti nei boschi. Il Border Violence Monitoring, una rete umanitaria che raccoglie e collega, nella dorsale balcanica, una decina di organizzazioni per i diritti umani, documenta continuamente di casi di maltrattamenti, percosse, sevizie inimmaginabili se non fossero rese reali e attuali da fotografie e referti medici (si veda il “Black Book of Pushbacks”, il Libro nero sui respingimenti alle frontiere diffuso il 18 dicembre 2020). I responsabili dei progetti per i migranti lungo la Balkan Route della rete Caritas-Ipsia rilevano come le condizioni dei profughi diventano sempre più insopportabili, con la tendenza in atto a trovarsi oggettivamente contro le popolazioni del posto in una “guerra fra poveri” che tende ad essere alimentata da certa propaganda e da attacchi xenofobi innescati ad arte da gruppi di facinorosi e, al contempo, condensato e conseguenza di una situazione sociale ed economica assai difficile in posti che a 25 anni dagli Accordi di Dayton che volevano porre fine alla guerra nell’ex Yugoslavia faticano a trovare sviluppo ed equilibrio armonico dal punto di vista etnico.
I campi profughi di Salakovac, vicino a Mostar, di Usivak e Blazuj nei pressi di Sarajevo hanno subìto attacchi e sono sotto pressione; l’IOM (International Organization for Migration) denuncia continue proteste dei residenti che si vedono scavalcati nelle “attenzioni” e nell’aiuto, una situazione non semplice se si vogliono contemperare esigenze e bisogni, presenze e diritti di tutti.
I volontari costituiscono di certo un presidio perché certe situazioni non abbiano a degenerare anche se si tratta sempre di equilibri precari, sommerse come sono quelle comunità in un mare di necessità e bisogni immediati. Per non dire di quel che accade dei migranti che, tentato di passare il confine, vengono intercettati nelle zone di Trieste e di Gorizia e rimandati indietro, la polizia di frontiera slovena li consegna agli agenti croati che ci vanno giù duro pure con persone che, de jure, avrebbero diritto alla protezione. Il Danish Refugee Council (onlus con sede a Copenhagen, presente con i suoi attivisti in varie zone “sensibili” del mondo) ha accertato di qualche migliaio di persone rispedite nel campo bosniaco di Bihac, in un gioco allo scaricabarile tra polizie come si stesse trattando di pacchi postali e non di persone sballottate in modo disumano da un posto all’altro, con una presenza rilevante di bambine e bambini, in numerosi casi minori non accompagnati. Segno tangibile di un’emergenza che rincrudisce e pesa ancor più sull’intera area nel rigido inverno balcanico.
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