Il nuovo anno secondo don Lauro: “Ripartiamo dalla fraternità”

L’Arcivescovo, nei giorni del lockdown, in piazza Duomo deserta, mentre si reca in cattedrale per celebrare la Messa delle 10 diffusa in streaming e in diretta televisiva

La dolorosa esperienza della pandemia “ha posto i presupposti per una riscoperta della fraternità universale, che dobbiamo tutti riscoprire e dalla quale possiamo ripartire”. È una delle convinzioni che l’arcivescovo Lauro Tisi coglie come motivi positivi al termine di un anno che lo ha visto spendersi senza risparmio nel farsi vicino a chi era nel dolore, nel lutto e nel disorientamento. Lo ha fatto con la fiducia in Gesù che esprime anche nelle prime battute di questo dialogo.

Il 31 dicembre Lei guiderà in Duomo il Te Deum, ripercorrendo gli avvenimenti del 2020. Ma c’è qualcosa per cui ringraziare a conclusione di questo difficile anno?

Il motivo per cui maggiormente dobbiamo ringraziare lo recupero da un brano del Vangelo. Quello in cui Giovanni Battista domanda a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Probabilmente è questo il sentimento che domina anche noi. Ci viene talvolta da chiederci dov’è Dio in quest’ora così difficile per tutta l’umanità. Al Battista Gesù risponde invitando a guardare ai ciechi che riacquistano la vista, agli zoppi che camminano, ai lebbrosi che guariscono. Mi sono chiesto quindi dov’è che in quest’anno ho visto i ciechi che vedono e gli zoppi che camminano…

E cosa si è risposto?

Per me hanno il volto preciso di tutta una serie di persone che da marzo ad oggi hanno “scritto pagine di Vangelo”. Dagli operatori sanitari, ai volontari, a tanta gente che si è presa cura di anziani e categorie deboli. Ho presenti nomi e cognomi di decine di persone che hanno fatto la scelta evangelica di rischiare la propria vita per gli altri. Una cosa che tutti hanno visto e continua anche oggi, fuori dai riflettori: il tessuto della nostra realtà trentina è fatto di uomini che sanno ancora mettere in gioco la vita per gli altri.

Sono arrivati tanti segnali positivi di attenzione agli altri, li ha documentati anche il nostro settimanale. Non era scontato…

Dalla pandemia è emerso chiaramente che non possiamo fare a meno degli altri. Due anni fa si parlava dell’Europa in termini molto negativi, adesso constatiamo che se non ci fosse stata l’Europa non sappiamo dove saremmo. È tornata l’idea che comunque vada siamo legati. Lo si è visto anche da alcuni gesti, alcune decisioni, come la scelta di vaccinarsi contemporaneamente in tutti i Paesi. Oppure da certi discorsi di Ursula Von der Leyen, da cui ho sentito importanti parole di coesione.

E dentro la Chiesa, un motivo per ringraziare?

Quest’esperienza inedita ci ha portato a comprendere quanto avevamo dato troppa importanza ad alcune cose che invece erano e sono marginali anche nella vita cristiana. Siamo arrivati a riconoscere alcuni aspetti essenziali: l’Eucarestia, la Parola di Dio e i poveri. Sono tre realtà che si possono e si debbono considerare prioritarie, al di là delle privazioni della pandemia.

È cambiata quest’anno anche la percezione della fragilità e il rapporto con un tema esistenziale come la morte.

I 60 mila decessi a cui abbiamo assistito sono una cifra spaventosa. Confrontandoci in maniera così ravvicinata con la morte è emerso come il morire non sia un fatto biologico, ma al contrario vada molto al di là del dato biologico. Tutti stiamo soffrendo perché le persone muoiono senza la vicinanza degli affetti più cari: una sofferenza trasversale che è entrata in tante case, e ci dice quanto sia necessario riprendere a dialogare con la nostra fragilità. La morte non è semplicemente smettere di respirare, ma va di pari passo con l’amore, ci fa tornare quindi a “Sorella Morte” di Francesco, e cioè a un dialogo con la morte, per parlare di vita.

Riprendendo il titolo della Sua recente lettera pastorale, la pandemia ha evidenziato un nuovo significato della vulnerabilità, che era spesso intesa soltanto come una debolezza.

Grazie di questa constatazione. Ora aggiungo che abbiamo capito in questi mesi come dobbiamo considerare l’aver bisogno degli altri, non come una diminutio, ma come una risorsa. La vera povertà è l’invulnerabilità di chi è chiuso nella sua torre e non lascia entrare input, idee, storie e vicende diverse dalla propria. L’invulnerabilità all’altro è la vulnerabilità più terribile. Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, è prevalsa una declinazione della vita che ci ha fatto passare dalla “persona” all’”individuo”. C’è una differenza sostanziale: la persona interagisce, l’individuo è chiuso in sé stesso. Questa vulnerabilità che è emersa può diventare una grande risorsa, se ci farà realizzare a livello culturale l’idea che chi dialoga, ha bisogno degli altri e interagisce con loro, non compie un’azione di debolezza, ma un’azione di forza.

Le limitazioni di questi mesi hanno reso necessario un cambiamento delle modalità con cui raggiungere i cristiani, attraverso il digitale. Che bilancio ne possiamo trarre?

Intanto dico che questa modalità di comunicazione ha cambiato anche me: sono sempre stato piuttosto critico sul virtuale, ma ora devo dire che è stata una Provvidenza, e piano piano ho imparato a starci anche un po’ dentro. Se da un lato la mia è stata una conversione vera e propria a questi strumenti, dall’altro è rimasta, e per certi versi si è rafforzata, l’idea che trovarsi in presenza abbia una potenza comunicativa che il virtuale non dà. Lo vediamo anche nelle case di riposo, che stanno strutturando queste “stanze degli abbracci”, perché non basta un tablet per sopperire alle dinamiche sociali che oggi mancano. Nonostante questi evidenti limiti, va riconosciuto che, grazie al virtuale, abbiamo intercettato soggetti che altrimenti non avremmo mai raggiunto.

Ne ha avuto prova diretta?

Sì, ho avuto la gioia di essere stato interpellato da persone assolutamente lontane dal percorso ecclesiale, raggiunte tramite questa via. È un aspetto che merita un approfondimento, perché anche quando torneremo alla presenza non vorrei perdere le opportunità che il virtuale ci ha dato: è una piazza in cui bisogna stare, perché sono convinto che non potremo fare a meno di quello che abbiamo imparato; nello stesso tempo dovremo dedicare tempo a studiare a fondo come esserci, per migliorare la qualità e l’efficacia pastorale della nostra presenza.

Guardando alle istituzioni, chiamate ad affrontare questo delicato momento, qual è l’atteggiamento corretto dei cristiani verso chi si trova a dover decidere? È un delicato confine quello che passa fra lo stimolare, il criticare e il proporre…

A chi si trova ai vertici delle istituzioni in questo periodo è capitata una bella tegola. Non la augurerei neanche al peggior nemico. Anche io, che sono in genere allergico al dare indicazioni, ho dovuto sobbarcarmi l’onere di assumere decisioni importanti. Direi che vanno comprese le difficoltà dell’emergenza, ma va premesso anche che farsi la guerra tra istituzioni non è sano; ad esempio, lo scontro tra regioni e Governo non ha aiutato per niente, perché quando c’è un’emergenza non si deve speculare per partite politiche.

Ma la politica che lezione deve trarre da questa situazione?

Questa pandemia sta imponendo la necessità di pensare a un’economia diversa, che metta al centro la persona e non più il mercato, un’economia circolare di cui parla anche papa Francesco. Come Chiesa, accanto a quella della comunicazione virtuale, la prossima sfida che abbiamo davanti è quella di stimolare la politica a fare di tutto per trasformare e rinnovare l’economia in questo senso. I temi da sviluppare sono diversi: dalla valorizzazione della ricerca scientifica al potenziamento del sistema sanitario che deve essere capillare e territoriale. Finita l’emergenza non bisogna tornare alle prassi di prima. C’è poi il tema ecologico: dobbiamo smettere di pensare che la tutela dell’ambiente sia un costo, perché al contrario, la tutela del Creato rappresenta una risorsa, un’opportunità e una ricchezza.

Guardando in prospettiva, che anno sarà il 2021?

Sarà l’anno che vorremo diventasse: dipenderà tutto da noi. Abbiamo davanti delle grandi possibilità, un nuovo modello economico, un nuovo rapporto con l’ambiente, un ripensamento della globalizzazione che faccia attenzione alla persona. Tutto dipenderà da una nostra scelta: se ci lasceremo vincere dalla frustrazione, dalla rabbia e dal rifiuto a varcare il nuovo, o se saremo in grado di far prevalere le grandi opportunità che abbiamo. Il segreto potrebbe essere quel senso di fraternità universale di cui la pandemia ha creato i presupposti, ma che è tutta da costruire e da cercare. In questo momento in cui il mondo è fermo al palo è la fraternità ciò da cui bisogna ripartire.

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