E’ triste pensare che non potremo più rivedere gli occhi vivaci di Agitu che ci accolgono nel suo negozio di formaggi e prodotti biologici ben avviato nella centrale piazza Venezia o che non la si possa contattare per una testimonianza sul suo percorso individuale: da ragazza studiosa ad Addis Abeba a laureata in Sociologia a Trento, poi rifugiata in Italia per motivi politici e quindi premiata imprenditrice, promotrice di agricoltura sostenibile e del recupero delle terre alte.
Chiunque la incontrasse rimaneva colpito dalla sua passione e dalla sua determinazione, sia che raccontasse il dovere di contrastare nel mondo il fenomeno del landgrabbing (gli accapparramenti di terreni ai danni dei poveri) sia che cercasse vie nuove per far conoscere i prodotti e l’attività condotta insieme ad altri produttori della val dei Mocheni. Commuoveva il pubblico accennando alla persecuzione subita al rientro in Etiopia per il suo impegno sociale, entusiasmava raccontando i progetti di espansione della propria azienda a Frassilongo, ai quali anche ieri – il giorno in cui è stata trovata senza vita nella sua abitazione di maso Villata – si stava dedicando.
L’aveva denominata “La capra felice” ma si trattava della felicità che lei stessa provava portando al mercato il frutto dei campi e della lavorazione del latte caprino o confezionando i pacchi dono con un assortimento dei suoi prodotti. In fondo, era anche la nostra felicità di vedere incarnato in quella pelle color ebano un progetto che armonizzava efficacemente impegno personale, risultato economico, recupero dell’ambiente e cultura della sostenibilità, grazie anche alla disponibilità nel partecipare personalmente a incontri e dibattiti: “Sono arrivata in ritardo – ci disse due anni fa all’inizio di un seminario di studio promosso alle Albere dalla Fondazione Demarchi – perchè prima ho dovuto assistere una delle mie capre che stava partorendo”. Aveva anche un carattere molto tenace e forte, come si vide nella vicenda giudiziaria in cui dovette difendersi da offese di stampo razzista, arrivate anche sui social. E questa grinta la portava anche a cercare di offrire opportunità ad altri stranieri precari – prima pachistani, poi africani – che avevano bisogno di lavoro.
Agitu aveva saputo contagiare di felicità anche vari ambienti trentini – sia produttivi che culturali – cercando e ottenendo collaborazioni da parte di associazioni nazionali, gruppi culturali ma anche amministrazioni comunali, non solo in val di Gresta (dove aveva cominciato) o in val dei Mocheni, dove viveva. Ecco un altro dei doni che ci lascia dopo la sua morte violenta: l’importanza di saper collaborare con gli altri, come lei riusciva a fare con la sua agenda sempre fitta e la sua giornata lunghissima, sapendo che “nessuno può essere felice da solo”.
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