Secondo dati scientifici abbastanza affidabili, fino ai nostri giorni sarebbero passati sulla terra all’incirca 100 miliardi di esseri umani. Di questi, noi attualmente viventi, costituiremmo la rispettabile cifra degli ultimi 7 miliardi. I 93 precedenti – possiamo dirlo senz’altro all’indicativo – sono passati. Sono i morti. Stando così le cose, la terra sulla quale poggiamo i piedi ogni giorno e in cui affondano le fondamenta delle nostre case… questa madre-terra coperta da boschi, da distese enormi di frutteti, campi di grano e quant’altro si possa immaginare, alla fin fine non sarebbe altro che un immenso cimitero… Non solo i recinti rispettosamente predisposti a custodire tombe, lapidi e loculi, a ognuno dei quali si dà nome “camposanto”, ma tutta questa crosta terrestre che nonostante lo scempio operato dagli umani ha ancora la ventura d’esistere. Un immenso cimitero.
So benissimo che questa constatazione non comporta granchè in termini di conforto a quanti, motivati da età avanzata o semplicemente dalla sollecitazione a evitare assembramenti a causa della nuova ondata di Covid, non parteciperanno a quelle tradizionali Celebrazioni che hanno luogo nelle ricorrenze dell’1 e 2 Novembre.
Mi chiedo, tuttavia (in questa, come in altre occasioni o ricorrenze) se questa assenza non possa e non debba provocare una modalità diversa e perfino più autentica di fare memoria dei cosiddetti “cari defunti”. In cosa consisterebbe? In una riflessione, coraggiosa ma serena, che ritrova il linguaggio degli affetti e, per i credenti, quello della preghiera.
Certo, a chiunque si reca abitualmente al camposanto in queste tradizionali ricorrenze, il ricordo dei propri cari si impone, e in modo non superficiale o distaccato, ma quanto mai intimo e non di rado ancora lacerante. Ma è altrettanto vero che, deposto il solito vaso di crisantemi, e fin che dal camposanto si può – oltre che entrare – anche uscire, il tutto può ridursi a una parentesi, prima della quale si andava di corsa e dopo si riprende: la solita corsa appunto. Cosa è cambiato?
Dover interrompere provvisoriamente, per motivazioni più che serie, una tradizione assodata, può aprire un’opportunità da non sottovalutare: quella della riflessione, di cui si diceva poc’anzi. Superfluo, forse, pretendere di esplicitare su che cosa riflettere, ma qualche esemplificazione va fatta.
Sostare (anche in casa propria) con serenità e senza fretta nel ricordo dei propri morti può diventare uno spazio di ascolto, in cui accogliere e capire finalmente parole e messaggi che, all’origine, quando risuonarono, non erano stati compresi. E’ un debito da assolvere nei loro confronti, oltre che un nobile modo di onorarne la memoria.
Che se poi è la Fede cristiana ad animare quel ricordo, lo spazio che si squarcia – quantunque non limpido e terso come un cielo spazzato dal vento, ma abbastanza offuscato da nascondere e tuttavia lasciar intuire nello stesso tempo – è lo “spazio” di una “presenza” misteriosa e gratificante: Cristo, il Signore vivente, e in lui (senza rischio di suggestione) quella dei propri cari, in incontri davvero “ravvicinati”, perché tutti vivono grazie a lui.
Forse è giunto il tempo delle provocazioni: a sospettare che “l’Aldiquà” e “l’Aldilà” non indichino un mondo di vivi e un mondo di morti, ma di viventi – in modalità diverse – sia da una parte che dall’altra.
Forse si può perfino pensare che questa terra non sia soltanto un immenso cimitero di esseri umani che l’hanno calpestata, ma piuttosto una specie d’aeroporto, o meglio, una pista di decollo verso un’orbita che non odora di corruzione, ma profuma d’eternità.
Sì, benedetti i cimiteri: antica parola dal greco, che significa “dormitòri”, ma perciò stesso provvisori. Passeranno.
Infatti, all’aeroporto si va per prendere il volo, non per fermarsi in sala d’attesa.
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