Davvero “fratelli tutti”? Non è un punto interrogativo giustapposto come segno di sfiducia quello con cui vogliamo evidenziare la portata epocale della terza enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti”, firmata sabato scorso sulla tomba del santo di Assisi. Una prima lenta lettura – consigliabile a tutti, poiché i 287 paragrafi si fanno gustare come le ciliegie, una dopo l’altra – suggerisce già l’impressione che questo documento nel suo stile quasi confidenziale racchiuda in verità una domanda grave per l’umanità e per ognuno di noi: perché non ci riscopriamo uomini fraterni, così da rendere finalmente migliore il mondo?
Potrebbe apparire un’interpretazione romantica (ecco l’aggettivo che il Papa stesso preferisce a “buonista”) e quindi inconcludente, ma basta entrare nel vivo degli otto capitoli per cogliere la severità ultimativa con cui Francesco ci inchioda alle contraddizioni del nostro tempo.
“Non dovevano morire così” scrive ad esempio a proposito degli anziani lasciati in balia del coronavirus e poi nel denunciare “numerose forme di ingiustizia che persistono oggi nel mondo” le definisce “nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto che non esita a sfruttare, scartare e perfino a uccidere l’uomo”. E quando arriva a demolire la cultura dei muri, il Papa ammonisce lapidario: “Chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro i muri che ha costruito, senza orizzonti”.
Una severità di stampo evangelico che non contraddice l’ispirazione francescana del testo (anche il poverello d’Assisi sapeva ammonire i suoi frati) e che ci autorizza a trasformare in punti di domanda alcuni passaggi cruciali.
Il primo: perché non riconosciamo che nel mondo “i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono”, che “domina un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata”, che ci illudiamo di essere onnipotenti ma che l’ossessione per uno stile di vita consumistico provocherà distruzione reciproca, dal momento che “il ‘si salvi chi può’ si tradurrà rapidamente nel ‘tutti contro tutti’, e questo sarà peggio di una pandemia?”
Quando leggeremo e tradurremo integralmente la parabola del Samaritano, icona “illuminante” della scelta obbligata tra il brigantaggio e l’indifferenza o la compassione e la presa in cura? Altro che astratto moralismo dottrinale: dal soccorso al forestiero abbandonato sulla strada tra Gerusalemme e Gerico vengono tantee indicazioni concrete di un amore che “comincia dal basso, caso per caso”, “lotta per ciò che è più concreto e locale” ma si apre a tutti, senza confini, al punto da essere in grado di “superare tutti i pregiudizi, tutte le barriere ideologiche e culturali, tutti gli interessi meschini”.
Nei capitoli terzo e quarto, proiettati nella fraternità universale (“ben oltre un mondo di soci, associati solo per interesse”), si coglie l’urgenza d’interrogarsi sul senso profondo della solidarietà, che non è generosità sporadica ma pensiero e azione delle comunità, lotta contro le cause strutturali della disuguaglianza. A proposito, perché non si ribadisce a vari livelli la funzione sociale della proprietà, per la quale “anche le capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, devono essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate?”
Sulla politica: perché non rifiutare decisamente il populismo, che usa demagogicamente i deboli, per ripartire invece dalla categoria del popolo, puntando alla “migliore politica” che non deve essere sottomessa né all’economia né alla tecnocrazia? Per questo, il Papa non si stanca di ripetere che a livello mondiale in campo economico, commerciale e ambientale devono essere riconosciute con maggior forza giuridica le autorità internazionali, a partire dall’ONU che non può essere delegittimata. Esempi non da poco: riusciamo ad annunciare che non esiste guerra giusta e che “ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato”? Possiamo fare di più per arrivare all’abolizione della pena di morte, per migliorare le condizioni carcerarie che non rispettano la dignità dell’uomo, come l’ergastolo quando si configura come “una pena di morte nascosta”?
Le ultime due domande, personali e collettive, esaltano due valori che sono stati ricoperti di polvere dai nemici della fraternità. In primo luogo, il dialogo, quello vero, che afferma la propria identità ma si rafforza nell’ascolto profondo delle ragioni del fratello. Possiamo rilanciarlo, nei nostri quartieri come fra le grandi religioni sull’esempio dell’abbraccio ad Abu Dhabi fra Francesco e il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, ispiratore di interi capoversi di “Fratelli tutti”?
Il secondo valore, tutt’altro che atteggiamento sentimentale o borghese, è la pratica della gentilezza, “in grado di trasformare profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e confrontare le idee”. Ci impegniamo – da domani – a “dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano”, invece di “parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano?”. Sarebbe il primo modo per rispondere ad alcuni interrogativi della nuova enciclica.
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