Ad un mese di distanza dalla terrificante esplosione al porto di Beirut sembra che la vita politica in quel disastrato Paese si rimetta miracolosamente in moto. Dopo le dimissioni del governo libanese, che aveva tollerato per anni la presenza di depositi di materiale esplosivo e armi nell’area portuale, e di fronte al diffondersi di una incontenibile collera popolare, che sembrava riportare il Paese sull’abisso della guerra civile, ecco improvvisamente la nomina di un nuovo primo ministro, l’ex-diplomatico Mustapha Adib.
Ma fatto ancora più interessante è che il vero elemento dell’instabilità libanese, rappresentato da Hassan Nashrallah, leader sciita del partito-milizia Hezbollah, si sia dichiarato disponibile a ridiscutere l’intero sistema di governo su cui si regge il precario equilibrio fra le fazioni di quel paese. Come è noto, accanto a cristiani maroniti, sunniti e drusi, gli Hezbollah costituiscono uno stato nello stato con un proprio esercito e sistema di potere. Per di più essi sono legati a doppio filo con il Presidente della Siria Bashar al-Assad e con gli Ayatollah iraniani. Sono insomma il terminale di quella specie di “scimitarra sciita” che taglia a metà il mondo sunnita partendo da Teheran, passando per Bagdad e Damasco fino, appunto, a Beirut. Una vera sfida per la Turchia a nord e per i Paesi del Golfo a sud. Uno dei motivi di questa offerta di dialogo da parte di Nashrallah dipende certamente dalla rabbia popolare contro gli Hezbollah ritenuti responsabili di avere stoccato le armi nel porto di Beirut.
Ma la vera ragione che spinge Nashrallah a tendere la mano al nuovo primo ministro è il mutamento dello scenario geopolitico in quella parte del Medio Oriente. Da una parte, infatti, l’Iran si trova in enormi difficoltà economiche, sia per le nuove sanzioni americane che per i prezzi bassi del barile di petrolio. Dall’altra, si è messo in movimento anche il fronte israeliano che, a sorpresa, è riuscito, dopo Egitto e Giordania, a spezzare ancora di più l’isolamento con l’accordo diplomatico con gli Emirati Arabi Uniti. A testimoniarlo, il recente primo volo commerciale fra Tel Aviv e Abu Dhabi passando addirittura sopra lo spazio aereo dell’Arabia Saudita, fino a ieri vietato agli aerei israeliani. Gli Hezbollah che, assieme agli Ayatollah di Teheran, hanno fatto di Israele il nemico numero uno di tutti i Paesi musulmani della regione si sono improvvisamente trovati spiazzati di fronte a questa mossa di Gerusalemme. Mossa favorita dal massiccio intervento politico-diplomatico dell’amministrazione Trump che ha colto l’umore anti-iraniano del mondo arabo portandolo su posizioni filo-israeliane.
Questo insieme di eventi, all’indomani della strage di Beirut, sembra aprire quantomeno uno spiraglio di speranza nella soluzione di alcuni inestricabili nodi che bloccano da diversi anni qualsiasi negoziato.
Tuttavia sullo sfondo rimangono alcuni problemi irrisolti. Il primo è che i palestinesi sembrano completamente tagliati fuori da questi giochi diplomatici. Nessuno li consulta né intende prenderli in considerazione. Per un popolo composto ancora largamente da rifugiati, la maggior parte dei quali vive nei campi in Libano, e da una enclave, quella di Gaza, in mano alle forze più estremiste del movimento di liberazione palestinese, un tale isolamento può portare ad azioni di ritorsione.
Il secondo è che se non si risolve la crisi siriana, che proprio in Libano ha ammassato quasi 1 milione e mezzo di rifugiati (su una popolazione di 8 milioni di libanesi), sarà ben difficile normalizzare la situazione politica interna a Beirut.
C’è a questo punto da chiedersi dove sia l’Europa. A muoversi freneticamente è Macron, seguito a ruota dal nostro premier Conte. Ma dove sta Bruxelles? Ecco nuovamente emergere la marginalità dell’Unione che nelle crisi gravi non ha gli strumenti per entrare in gioco. Eppure il Libano non è solo responsabilità francese o italiana ma di noi tutti europei.
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