Il referendum costituzionale del 20 e 21 settembre ci chiede di confermare con un Sì o rifiutare con un No il taglio dei parlamentari approvato a larga maggioranza dalle Camere. Il contenuto di questa riforma della Costituzione è presto detto: il numero dei deputati passerebbe dagli attuali 630 a 400, quello dei senatori dagli attuali 315 a 200. Un taglio lineare di oltre un terzo dei componenti (il 36,5%) in entrambe le Camere.
In Parlamento la riforma ha seguito un percorso piuttosto rapido, ma segnato da un clamoroso colpo di scena. Nelle prime tre votazioni (7 febbraio, 9 maggio e 11 luglio 2019), il progetto viene sostenuto dall’allora maggioranza di governo (Lega e Movimento 5 Stelle) e contrastato dall’allora opposizione (Partito democratico). Poi però sopraggiunge la crisi del Governo Conte 1 e il cambio di maggioranza, da giallo-verde (5 Stelle e Lega) a giallo-rossa (5 Stelle e PD). Il Movimento 5 Stelle pone però al nuovo alleato la definitiva approvazione della riforma costituzionale quale condizione per far partire il Governo Conte 2. Il PD accetta la condizione, compie un’inversione a U e nell’ultima votazione, l’8 ottobre 2019, vota a favore della riforma, che viene così approvata dalla Camera praticamente all’unanimità. Da qui nasce l’imbarazzo di oggi del Partito Democratico, che non può dire ai suoi elettori di votare NO (sarebbe un tradimento del patto con i 5 Stelle) ma fa ovviamente fatica a convincerli a votare SÌ (dopo aver votato NO per tre volte in Parlamento).
Chi invece ha sempre sostenuto convintamente il taglio dei parlamentari è appunto il Movimento 5 Stelle, che lo ha fatto con la peggiore delle motivazioni: il taglio dei costi della politica. Dico peggiore delle motivazioni perché è insieme fuorviante e pericolosa. È fuorviante perché cerca di far credere che il problema della spesa pubblica italiana sia rappresentato dai costi di funzionamento del Parlamento e che il taglio dei parlamentari possa produrre un effetto benefico di qualche rilievo sulle tasche dei cittadini. Le stime più attendibili parlano invece di un risparmio dello 0,007% sulla spesa pubblica, praticamente impercettibile per il cittadino. È pericolosa perché denigra l’idea stessa della rappresentanza parlamentare, instillando l’idea che i parlamentari siano tutti indistintamente dei privilegiati fannulloni, da tagliare come si tagliano le spese inutili. Ma è semmai migliorando le modalità di selezione dei parlamentari che si restituisce credibilità al Parlamento, non certo tagliando la rappresentanza.
Detto questo, lasciando da parte le motivazioni demagogiche, bisogna domandarsi se la proposta cura dimagrante aiuterà effettivamente il Parlamento a lavorare in maniera più efficiente. Sul punto, i sostenitori della riforma affermano che il numero dei parlamentari in Italia è troppo elevato nel confronto con gli altri Paesi europei e che due Camere più snelle lavoreranno meglio.
Il confronto con gli altri Paesi è però difficile e ambiguo, per il semplice fatto che nessun altro Paese ha due Camere direttamente elette dal popolo che svolgono le stesse funzioni. Se si somma il numero dei deputati a quello dei senatori, il numero complessivo dei parlamentari eletti direttamente è effettivamente molto elevato rispetto alla popolazione. Ma non è così se invece si considerano le due Camere separatamente e si guarda quanti cittadini rappresenta un deputato e quanti un senatore. In sostanza, più che nel numero complessivo dei parlamentari, la singolarità del sistema italiano sta nel fatto che un cittadino è rappresentato due volte in due Camere che svolgono le stesse funzioni.
Quanto all’efficienza delle Camere, non è scontato che un’assemblea più piccola lavori necessariamente meglio di una più grande. Se fosse così, già oggi il Senato dovrebbe lavorare in maniera molto più efficiente della Camera, visto che i suoi componenti sono la metà. E ancora, se l’efficienza dipende dai numeri, non si capisce perché, anche dopo la riforma, la Camera debba continuare ad avere un numero di rappresentati doppio rispetto al Senato.
Il punto è che l’efficienza delle Camere non dipende tanto dal numero dei loro componenti ma da come esse lavorano e da che cosa devono fare. E qui torniamo alla grande anomalia italiana, che non viene toccata da questa riforma, cioè il bicameralismo perfetto: due Camere elette direttamente dal popolo che svolgono le stesse funzioni. La riduzione del numero dei parlamentari dovrebbe essere pensata come un elemento secondario di una riforma che affronti il vero problema del sistema parlamentare italiano, il bicameralismo perfetto appunto, e trasformi il Senato in una Camera di rappresentanza delle Regioni o delle autonomie, come si discute ormai da decenni. La riforma attuale, invece, ne fa una bandiera a sé stante, lasciando del tutto irrisolto il problema principale.
Se dovesse vincere il Sì, è da augurarsi che le Camere, costrette a modificare i propri regolamenti interni per adeguarli al nuovo numero di componenti, colgano l’occasione per ripensare il loro modo di lavorare e renderlo effettivamente più efficiente. Ma ancor più importante è che non venga considerato superato il problema della riforma del bicameralismo perfetto, che rimarrebbe tale e quale a prima.
Ugualmente, se dovesse vincere il No, è da auspicare che il rifiuto di questa riforma non sia letto come il trionfo dell’idea secondo cui la Costituzione non si può assolutamente modificare, perché in materia di composizione e funzione delle due Camere la Costituzione ha invece bisogno di una riforma più ampia e più coraggiosa di quella su cui voteremo il 20 e 21 settembre.
(Davide Paris è Senior Research Fellow al Max Planck Institute di Heidelberg)
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