L’ora degli onesti e del dovere, ma anche l’ora delle viltà volgari

I cappelli piumati altoatesini. Foto (c) GianniZotta

Lo spunto

Dopo ciò che è accaduto nel Paese il 2 giugno, in occasione della Festa della Repubblica non vado in esilio da queste rovine mediterranee. Continuerò a scalare muri di rabbia , muri di parole inutili, utili per non morire senza il conforto di un diritto, di un’illusione.

Antonio Marchi – Trento

La lettera di Antonio Marchi esprime bene il sentimento di molte persone, uomini e donne, giovani e anziani in queste giornate incerte. Il virus non travolge più con la sua tempesta, ma non è per nulla scomparso, si ritira e si riaffaccia come un’onda sulla spiaggia, un bagnasciuga dove non ci si può fermare. Decisioni coraggiose sono state prese negli ultimi mesi, dopo che il Paese ha mostrato responsabilità e senso di unità di fronte all’epidemia, ed anche orgoglio di “sapercela fare”, di pacificazione con la sua storia, la sua bandiera, la “sua” Europa. Ma ora comportamenti malsani tornano ad emergere, inquinano i rapporti fra i territori, le istituzioni, i partiti.

Il rischio è che si ricada in una frammentazione lacerante, e quindi frustrante nella sua impotenza (sulle divisioni non si costruisce mai nulla) che spinge a vie di fuga o a scorciatoie di rancore. Così si cercano capri espiatori per ritardi che pur ci sono stati, o per carenze non previste, perché il virus – per settimane – non lo capiva nessuno.

Ma se ora si apre una “via giudiziaria” alla ricostruzione (una specialità italiana) evocando processi “tipo Norimberga” di cui si avverte il sentore, come ha denunciato in un’intervista all’Ansa il sociologo e pensatore francese Alain Finkielkraut, allora, certo, si sta preparando una pericolosa stagione di involuzioni e divisioni, fra “untori” e fruitori, lavoratori e “traditori”. La paralisi. E invece occorre ricostruire – insieme – proprio per poter cambiare ciò che le ferite del virus hanno mostrato doveroso cambiare.

Tre cose soprattutto: il modo di lavorare, più sobrio (domeniche!) ed equo nel riconoscere le mansioni “dimenticate” e precarie (che si sono rivelate le più utili e generose), l’ambiente da proteggere, perché tutto ha origine nei suoi squilibri, le industrie strategiche e vitali da sostenere, perché non è questione di “mercati”, ma di consapevolezza antica che alcune cose essenziali occorre averle in casa, se non si vuol diventar servi e schiavi.

E’ questa, in fondo, la lezione del virus, ed è per questo che è importante la lettera di Marchi quando dice di voler “restare” per scalarne i muri. Costruiti per separare, non per difendere: è sempre “divide et impera”. Marchi va solo incoraggiato perché non si faccia travolgere da malinconie di rassegnazione. Le parole non sono inutili, sono “la casa delle cose”, danno forma alla realtà, le forniscono un tetto di protezione contro le incursioni violente. E la rabbia può diventare anelito di giustizia, se non si lascia travolgere essa stessa dalle sue trasgressioni, dai “gilet” che indossa. Se i santi possono arrabbiarsi con Dio, come si legge nelle loro vite e come ha riconosciuto, appena nei giorni scorsi papa Francesco, significa che anche gli uomini possono arrabbiarsi con chi in politica strumentalizza le difficoltà, invece che aiutare a superarle. O trasforma il parlamento in un “set”di mediocre e scontato “show” televisivo.

Il “nuovo” invece, cresce nel silenzio, anche nel dolore di chi non lo ostenta. Ecco perché è importante non archiviare la giornata del 2 giugno. Non ricorda solo il riscatto repubblicano dopo le macerie della guerra, ma ha rivelato, come in uno specchio, il meglio e il peggio della nazione, diventando una bussola per gli onesti. Nel “meglio” mettiamo la vista del presidente Mattarella a Codogno e la voce commossa della crocerossina Giovanna Boffelli che l’ha accolto, mettiamo il riconoscimento a tanti volontari, infermieri, medici, commessi, trasportatori, che non si sono sentiti “eroi”, ma hanno fatto fino in fondo il proprio dovere. Le ombre hanno invece mostrato un’Italia politicamente presa in ostaggio dalla volgarità e cortei nei quali il tricolore è stato usato, e tradito, per mascherarne le viltà. Perché è cosa vile dire, in via del Corso a Roma come è stato detto e riportato, che la mafia, quel giorno del gennaio 1980 quando uccise Piersanti Mattarella, presidente della regione siciliana, colpì “il fratello sbagliato”. Occorre pesarli gli uomini, proprio dalle loro parole. Come occorre pesare – e il Trentino dovrà riflettere su questo, e sul ruolo della sua autonomia, che non può limitarsi a difendere risorse e turismo senza una responsabilità nazionale ed europea come voleva De Gasperi – l’azione degli Schuetzen che la notte del 2 giugno hanno spostato i confini (“Verrückt nach Süden”) in una cosiddetta “performance” su 25 passi e strade. Secondo il comandate Jürgen Wirth Anderlan, “gli ultimi tre mesi probabilmente hanno aperto gli occhi anche a chi era ancora indeciso. Restrizioni, caos e più vittime che in altri Stati. L’Italia non fa bene all’Alto Adige. L’Italia è un danno per tutte le persone che ci vivono”.

Poi gli Schuetzen marciano dietro le processioni, a passo cadenzato, nei paesi trentini.
Ecco perché bisogna restare. Perché, come scriveva Aldo Moro in un’altra stagione di “resistenza” (e si trattava allora di sconfiggere il terrorismo) “la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se non nascerà un nuovo senso del dovere”. La libertà non può essere solo “individuale”, per essere tale deve sentirsi dovere condiviso di progettualità e solidarietà. E le parole servono, eccome. Le “buone parole” non sono consolazioni solitarie. Sono anelli di impegno personale che si sommano costanti, una sull’altra, come gli anelli del legno, che anno dopo anno, senza che nessuno quasi se ne accorga, fanno crescere un fragile fusto fino a trasformalo in tronco robusto. Queste sono le “buone parole”. Le volgarità, le viltà, strappano invece le cortecce della vita, come i colpi d’accetta fanno morire l’albero.

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