La vicenda umana di Emanuele Stablum (1895 – 1950) mi ha condotto a percorrere sentieri molteplici, disegnando una rete che tiene insieme un’epoca. Ora ho davanti una sorta di mappa Kompass che mi guida ad esplorare una catena montuosa: non le Dolomiti di Brenta, ma l’avventura di una vita. Gira e rigira puoi sempre tornare al punto di partenza, provando l’ebbrezza di molti arrivi. Quando cammini – anche inoltrandoti nel groviglio della storia – sei come un uccello «che se ne và; né sosta mai, perché tutte le immagini portano scritto: più in là» (E. Montale).
Il personaggio, protagonista di Le alte vie di Emanuele Stablum, è stato un frate della Congregazione dei “Figli dell’Immacolata Concezione”. Molti lo ricordano come medico; i familiari come parente; i compaesani di Terzolàs come loro illustre concittadino; i dermatologi come caposcuola di un’importante istituzione ospedaliera; gli ebrei come Giusto; i cultori di figure di santità lo definiscono Servo di Dio, i suoi confratelli come un compagno di strada.
Da tutti questi punti di vista mi è stato possibile rileggere la vita di fratel Emanuele. Non solo per scriverne questa biografia. Via via che esploravo i passaggi della sua esistenza, ho percepito che i miei sguardi ammiravano cime ineguali, punti di riferimento per godere di un vasto panorama, tra stupore e contemplazione.
Nella dinamica del cammino mi è apparso significativo che Stablum – in genere sobrio nelle sue manifestazioni – abbia sempre puntato a fare cordata, un’attitudine che potrebbe sembrare ovvia sia per un uomo di montagna sia per un consacrato votato alla vita fraterna in comunità. Tuttavia, è una modalità di azione che non è mai scontata e che, come dice la parola stessa, richiede di metterci cuore, ovvero un supplemento d’anima.
C’è poi un’altra considerazione opportuna nel presentare figure di personaggi che appaiono un po’ fuori dalla portata comune. Quando essi sono in vita, hanno pregi e difetti come tutti, non sono prototipi di perfezione. Invece, è proprio uno sguardo complessivo che permette di cogliere la loro eredità al di là dei limiti personali: questa visione è possibile solo dall’alto, ovvero contemplando “come sono vissuti e come sono morti” (Ebrei 13,7) sempre – non ‘quasi’ sempre – affrontando fatiche, successi e insuccessi.
Allora si può davvero comprendere la valenza educativa del loro cammino spirituale, professionale, relazionale. Non sono percorsi da week end per appassionati di trekking e nemmeno esercizi spirituali per praticanti. Con l’intuito di chi vive lo spirito della montagna e di chi a tentoni insegue le ragioni della fede, si potrà trovare nella vicenda di Stablum utili indicazioni per l’avventura della vita. In senso figurato, le alte vie – ossia le sue vicende/esperienze personali – sono come immagini che illuminano la realtà che noi stessi viviamo e che ci permettono di sognare, di guardare “più in là”.
Da parte mia ho cercato di disegnare alcuni momenti e alcune fasi, con il risultato che questo libro si pone a mezza strada tra un’essenziale biografia e un umile reportage dal vivere quotidiano. Ho voluto cogliere dalla storia e dall’attualità quanto può nutrire il nostro spirito, giunti come siamo al crocevia di un cambiamento d’epoca che è pro-vocazione ad uscire allo scoperto.
Le alte vie hanno precise esigenze tecniche e strumentali per essere percorse: bisogna attrezzarsi per raggiungerle. Fratel Emanuele Stablum ha apertamente riconosciuto la percezione dei propri limiti assieme alla tentazione di scoraggiarsi di fronte alla salita. Se qualcosa lo ha calamitato verso l’alto è stato il suo mondo vitale, costituito dalla comunità religiosa e dalla comunità ospedaliera.
Questi mondi, intrisi di Vangelo, lo hanno salvato. Ed ora guardano a lui per ripensarsi.
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