L’urgenza della gradualità, fuori e dentro le chiese

Chiese riaperte, sane messe a numero chiuso. Foto Gianni Zotta

Ci siamo detti che con gli imprevisti a raffica di questi tre mesi abbiamo tutti imparato ad essere più pazienti, tolleranti e forse anche flessibili. Forse. I primi dieci giorni di fase 2, in verità, stanno rivelando che molti di noi prima affaticati quand’erano reclusi in casa, pure adesso fanno tanta fatica ad…aspettare. Appesantiti dal guscio delle restrizioni vigenti, siamo come le lumache dopo il temporale, quando protendono le antenne per arrivare prima e più lontano possibile, anche dove non si può.
L’immagine si potrebbe riferire alle rischiose “movide” giovanili – espressione di una naturale socialità, a rigore distanziata – ma anche a certi toni ultimativi e rancorosi che avvelenano le pur ragionevoli richieste di “fare presto”.
E’ come se le sofferenze e le ferite ancora incise dentro tante famiglie trentine fossero ormai solo una triste parentesi. E dopo averla chiusa questa parentesi (ma chi l’ha detto che è chiusa?), tutto può già essere come prima.
Non è così e anche nella comunità cristiana dovremo resistere alla tentazione di rimuovere questo carico di dolore. Dovremo anche evitare il rischio di ragionare come se si potesse dire semplicisticamente: “prima niente, adesso tutto”, prima non si poteva vivere la comunione, adesso dobbiamo ripartire con tutto.
Sono due posizioni risuonate nelle videochiamate dei nostri Consigli pastorali, ma anche nelle voci della Chiesa italiana. Prendete, ad esempio, il dibattito sulle Messe in streaming, che in alcune realtà sono state subito “tagliate”. Si è voluto così ribadire certo la centralità del sacramento da vivere “in presenza”, ma era forse errata l’impressione che prima la comunità si fosse dissolta e che nelle case non si fosse pregato e meditato. Anzi, talvolta lo si è fatto con un’intensità familiare o personale riscoperta, più consapevole.
In una sana logica ecclesiale non esistono “fuori” e “dentro”, la comunità è unita: “Chi ora può recarsi in chiesa deve ricordarsi di buona parte della comunità rimasta a casa, per la quale deve sentire quasi nostalgia, comprendendone la sofferenza”, ha detto l’Arcivescovo Lauro ad Avvenire in un’intervista nella quale motivava la sua scelta di proseguire le Messe anche in streaming dal Duomo come opportunità per accompagnare chi ancora non può tornare in chiesa, come ammalati e anziani: “È totalmente estranea all’Eucarestia una fruizione individuale e personale, che dimentica gli altri”.
Il metro e mezzo di distanza, imposto per sicurezza fra i banchi, rinforza purtroppo questa partecipazione troppo “privata” al momento celebrativo (e poi subito a casa). Compito di tutti in questa fase, oltre alla serenità e alla prudenza raccomandata dai vescovi del Triveneto, è richiamarsi un atteggiamento “caldo” gli uni verso gli altri, anche se non ci si può stringere la mano o farsi gli auguri sul sagrato. Quindi prendendosi carico dei servizi dell’igienizzazione (indispensabili) ma anche di quelli dell’accoglienza reciproca, al di là dei volontari (ormai noti come “ostiari”) che presidiano gli ingressi.
E’ da incoraggiare questa gradualità prudente e fantasiosa, come si è escogitato nella parrocchia di San Marco di Rovereto: dal momento che il protocollo CEI-Governo dispone che “può essere prevista la presenza di un organista, ma in questa fase si ometta il coro“ si è chiesto a tre famiglie a rotazione di guidare il canto. E così domenica scorsa tre sorelle si sono messe al microfono insieme ai loro genitori offrendo un servizio di accompagnamento al canto: nel pieno rispetto delle regole ma anche del calore ecclesiale.
Fra le condivisioni più vissute certamente quella del vescovo di Pinerolo Derio Olivero che dopo essere “ritornato” dal tunnel della terapia intensiva ha scritto su questo tema dell’apertura delle chiese una lettera ai suoi fedeli: “Sogno cristiani che non si ritengono tali perché vanno a Messa tutte le domeniche (cosa ottima), ma cristiani che sanno nutrire la propria spiritualità con momenti di riflessione sulla Parola, con attimi di silenzio, momenti di stupore di fronte alla bellezza delle montagne o di un fiore, momenti di preghiera in famiglia, un caffè offerto con gentilezza. Non cristiani “devoti” (in modo individualistico, intimistico, astratto, ideologico), ma credenti che credono in Dio per nutrire la propria vita e per riuscire a credere alla vita nella buona e nella cattiva sorte”.

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