All’indomani della pubblicazione sul n. 11 di Vita Trentina del 15 marzo 2020 dell’articolo dal titolo “Papa Pacelli, i legami trentini”, è giunta in redazione una lettera raccomandata di Elio Pontalti, postino in pensione di Povo, per confermare la presenza del futuro papa, all’inizio del Novecento, ospite, presso conoscenti, in un villa nobiliare in zona collinare.
Si tratta di una testimonianza assai curiosa, una di quelle notizie finora sfuggite alla cronaca nonostante la fondatezza e il risalto più volte dati dai resoconti di storia, seppure in forma molto stringata, sui soggiorni del sacerdote don Eugenio Pacelli, nato a Roma da una famiglia di alto rango nel 1876, divenuto successivamente nunzio apostolico in Baviera e poi a Berlino, quindi Segretario di Stato in Vaticano prima di salire al soglio pontificio nel 1939 col nome di Pio XII fino al 1958.
Nei mesi estivi, Eugenio Pacelli – avviato alla carriera diplomatica dopo l’ordinazione sacerdotale nel 1899 e l’ammissione nella Segreteria di Stato, presso la Congregazione degli Affari Straordinari -, aveva avuto modo di trasferirsi a Villa de Montel, oggi Pedrazzolli, ai piedi del Dosso di S. Agata a Sprè di Povo, dove era solito ritirarsi in vacanza nella residenza di famiglia mons. Giovanni Battista De Montel (1831-1910), sacerdote diocesano trentino, trapiantato a Roma dove divenne decano della Sacra Rota e consigliere diplomatico di tre pontefici.
Soprannominato “l’eminenza violetta”, per ben tre volte rifiutò la porpora cardinalizia, nonostante i molteplici riconoscimenti internazionali e la grande influenza esercitata fra Stato e Chiesa ed in particolare nel mondo tedesco e austroungarico. Da taluni storici è considerato il padre della moderna diplomazia vaticana per il ruolo svolto soprattutto nella cosiddetta Kulturkampf (battaglia per la civiltà).
La condivisione nello stesso palazzo a Roma dell’appartamento dei Pacelli e di mons. de Montel e il ruolo di docente e guida di quest’ultimo nei confronti di don Eugenio sono i motivi che hanno consolidato fra i due uno stretto rapporto di amicizia e di collaborazione che si traduceva in soggiorni comuni di vacanza e di studio a Villa de Montel.
Lontani da Roma, il monsignore e il giovane neo diplomatico erano i destinatari di una fitta corrispondenza e di plichi top secret che arrivavano in città attraverso corrieri privati, che provvedevano a depositarli presso gli uffici dell’Istituto Arcivescovile per sordomuti de Tschiderer, all’epoca pure sede vescovile.
Dal 1900 al 1910 il compito di prelevare e consegnare il delicato materiale era stato affidato al postino di Povo, ritenuto evidentemente persona fidata, che provvedeva a prendere in consegna anche la missiva ordinaria dei cittadini presso la stazione ferroviaria in città o di Villazzano. Col suo carico, spesso pesante, il portalettere doveva raggiungere i referenti ecclesiastici a piedi dal centro cittadino, lungo la carraia a fianco del Salè, fino al Colle S. Agata.
E’ per parlare di questo singolare vettore che s’innesta l’intervento di Elio Pontalti, perché si trattava di suo padre Pietro, nato nel 1880, deceduto nel 1960, portalettere dei “poeri” dal 1901 al 1950. Con la consorte aveva allevato una nidiata di ben 8 figli su 12 nati, tra i quali Corrado, il partigiano “Prua”, deceduto a 93 anni nel 2016.
Per iscritto e poi con due telefonate Elio, subentrato al padre come postino in zona collinare fino alla pensione, assai noto fra le persone di una certa età in campo sportivo, figurando fra i fondatori e dirigenti dell’Unione Sportiva Aurora e della Marcalo NGA, dall’alto della sua statura, oltre due metri, e dei suoi 89 anni, dal fisico ancora integro, chiarisce come suo padre sia stato aiutato dal futuro Papa Pio XII in due occasioni. Nonostante il riserbo che accompagnava il lavoro, per la delicatezza del compito e la notorietà discreta degli interlocutori romani, peraltro molto riservati, fra il giovane prete e suo padre era nata una certa confidenza, fatta di qualche affabile segno di riconoscenza, come l’offerta di un bicchiere di vino al momento della firma della ricevuta delle lettere, brevi battute di incoraggiamento a fil di voce, una benedizione e qualche piccolo dono per i figlioletti.
Nel corso di un incontro don Pacelli chiese spiegazioni sull’abbigliamento dimesso del suo interlocutore e sulla mano priva di ben tre dita con le altre due ridotte a moncherini, manifestando sorpresa per il fatto che il postino non godesse di alcuna sovvenzione, né per la divisa né per la mutilazione alla mano. Pietro Pontalti, neppure ventenne, giovane militare di leva dell’esercito austroungarico, durante un’esercitazione nel Basso Sarca per lo scoppio di un mortaio si era spappolato la mano sinistra, riportando ferite anche in altre parti del corpo. Esonerato dall’esercito, aveva rimediato il mestiere di portalettere nel comune di appartenenza, ossia a Povo, con spese a proprio carico per i vestiti e per eventuali mezzi di trasporto (bicicletta o carrettino). Pacelli si fece portare una dichiarazione, sottoscritta dal potestà, comprovante le asserzioni giustificative. Il povero postino, impacciato per l’interrogatorio subito e incredulo per la promessa di una raccomandazione ventilata presso le alte sfere amministrative a Vienna, dopo qualche tempo si vide consegnare una divisa nuova di zecca all’Istituto sordomuti e più tardi erogare, presso l’ufficio postale, la pensione di invalidità.
Nel 1918, dopo l’annessione del Trentino all’Italia, l’entrata previdenziale, considerata un’autentica manna per la numerosa famiglia, fu tagliata per essere riattivata solo qualche anno dopo, grazie alla mediazione di amici in sede romana. In casa Pontalti è sempre stata chiamata la “pension de la man” goduta dalla mamma nella formula della reversibilità.
Con i genitori in vita, il ritratto di Papa Pacelli ha sempre ben figurato nella grande cucina contadina Pontalti, oggetto di venerazione e preghiere per un “pretino” diventato Papa.
Elio, vecchio abbonato di Vita Trentina, bruciava dalla voglia di far conoscere questo particolare della storia di famiglia gelosamente conservato, raccontato mille e mille volte da papà e mamma e che non figura in nessuno dei 50 volumi di documenti al tempo custoditi a Villa de Montel, finiti non si sa dove, e neppure nelle migliaia di faldoni degli Archivi vaticani che da poco tempo, per espressa disposizione di papa Francesco, sono accessibili agli studiosi per far piena luce sull’operato di Pio XII durante la Seconda guerra mondiale.
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