Non era il momento di cantare vittoria, dopo il Consiglio europeo della scorsa settimana. Soprattutto non doveva farlo l’Italia, il Paese in assoluto più debole e maggiormente colpito da Covid-19 fra i 27 dell’Unione europea. In effetti, come era prevedibile, la riunione dei capi di governo dell’UE ha solo affrontato la forma, ma non la sostanza degli strumenti finanziari da mettere in campo per combattere il dopo-Covid-19. Si è cioè accolta l’idea di un Fondo per la Ripresa, sostenuto da diversi paesi del sud Europa, fra cui l’Italia e la Francia. Stop. La scatola è lì, vuota. Come riempirla?
Il compito è stato delegato alla Commissione europea e forse per il 6 di maggio ne sapremo qualcosa di più. I dettagli, dove spesso si annida il diavolo, sono tutt’altro che dettagli. L’ammontare complessivo del fondo, dove si reperiscono le risorse per renderlo operativo, i criteri per la distribuzione dei finanziamenti, se sotto forma di prestiti (da restituire) o di “donazioni” a fondo perduto, per quale tipo di progetti e investimenti potranno essere concessi, chi li “governerà” e li controllerà.
Insomma un autentico puzzle che per ogni suo pezzo dovrà essere studiato e approvato da ciascun Paese membro dell’UE fino ad un futuro Consiglio europeo che dovrà tramutarlo in vero e proprio nuovo strumento a disposizione dell’UE. Poiché si tratta, nelle ipotesi che si fanno, di un fondo che dovrebbe variare fra i mille e duemila miliardi di Euro (cioè 1 o 2 trilioni di Euro!) è abbastanza evidente che la partita sarà tutt’altro che facile.
Magari alla fine si raggiungerà un compromesso, ma come ci ha insegnato la lunga storia del processo di integrazione europea si tratterà ancora una volta di un compromesso al ribasso, quello che gli esperti chiamano il minimo comune denominatore.
Ogni volta che l’Unione si trova ad affrontare una grave crisi, gli ottimisti sperano sempre di riuscire a fare progredire l’integrazione “politica” di questa nostra incompleta Unione. L’ultima occasione era stata rappresentata dalla grave crisi finanziaria e dell’Euro del 2009-12. Già allora si sosteneva la teoria di un grande passo in avanti verso quello che già Carlo Azeglio Ciampi chiamava il “governo dell’economia europeo”. Egli infatti all’atto del varo dell’Euro aveva subito compreso che la sola moneta non poteva sostenere l’obiettivo della stabilità monetaria e finanziaria senza potersi appoggiare a politiche fiscali comuni, tali da riuscire ad assorbire eventuali shock finanziari. In altre parole era necessario un “governo” europeo autonomo e con competenze anche nel campo economico, sia che si trattasse di investimenti, trasferimenti finanziari e tasse. Ma anche nel 2012 ci si accontentò di dare vita ad un insieme disordinato di strumenti e procedure, dall’oggi tanto contestato MES al Fiscal Compact. Ma nessun governo dell’economia. A salvarci dalle inevitabili difficoltà degli anni seguenti fu la mossa geniale del governatore della BCE, Maro Draghi, di inondarci di liquidità e di mantenere i tassi di interesse al minimo. Ma è abbastanza evidente che neppure l’analoga mossa del suo successore, Christine Lagarde, può da sola bastare a fare fronte oggi ad una crisi di proporzioni di gran lunga superiori a quella del passato.
E’ quindi il momento per riprendere in mano il discorso del “governo dell’economia”? La logica direbbe proprio di sì, ma gli egoismi degli stati sono ancora altissimi e prospettare un passo del genere è quanto meno azzardato. Una mossa di compromesso in questa direzione sarebbe quella suggerita dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di “caricare” questo fondo straordinario all’interno del bilancio comunitario dei prossimi sette anni, dal ‘21 al ’27. A governarlo sarebbe la Commissione sotto il controllo del Parlamento europeo e per di più ciò permetterebbe di raddoppiare il bilancio dell’Unione fermo da decenni ad un misero 1% del PIL comunitario. Già questa decisione sarebbe un sogno. Purtroppo il negoziato sul prossimo bilancio settennale è ancora in alto mare e l’ultima sessione di febbraio del Consiglio europeo si è conclusa con un nulla di fatto. Per di più questi finanziamenti sono estremamente urgenti e non è possibile essere costretti ad aspettare il prossimo anno. Formule di transizione possono essere escogitate, ma occorre soprattutto un grande sforzo di volontà politica per arrivarci. Meglio quindi non cantare vittoria, ma spingere perché a vincere sia l’intera Unione.
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