DOMENICA 26 APRILE 2020 – TERZA DOMENICA DI PASQUA ANNO A
At 2,14a.22-33; Sal 15; 1 Pt 1,17-21; Lc 24,13-35
«… due dei discepoli erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus e conversavano tra loro». (Lc. 24,13). Le nostre conversazioni in questo tempo di Pasqua corrono sui social; gli incontri tra persone sulla strada si sono rarefatti, sono fugaci, vicino a un negozio o sotto casa. Negli occhi di tutti si legge preoccupazione e paura.
Anche i discepoli di Emmaus hanno visto crollare il loro sogno nel Messia, che se era stato crocifisso, e quindi non restava che accettare la sconfitta. Ed è la stessa sensazione che è possibile leggere in molti cuori.
Rivado ogni tanto con la mente a rileggere i messaggi inviatimi da molti parrocchiani: don prega per me, perché io non ne sono capace…. Ho paura e sono solo, cosa posso fare? … Prego la Madonna perché mi pare di non farcela… Le sicurezze dei discepoli e le nostre sono accomunate da un senso di precarietà e disorientamento, di mancanza di futuro. Tutto pare andare in frantumi. Come è possibile riporre tanta fiducia in Gesù di Nazareth, in Dio e poi subire una così cocente delusione? Andare avanti non è facile, la stanchezza e la fatica pesano e manca l’intraprendenza per il domani.
Eppure quando la sofferenza pesa sulle spalle, quando la delusione blocca ogni voglia di ricominciare, «la strada per Emmaus diventa l’itinerario obbligato anche per i credenti e i cercatori di Dio» anche per tutti i «profughi della disumanità e delle menzogne del nostro tempo.»
Il volto triste dei due discepoli è il nostro volto: in ogni notte che l’umanità deve passare Gesù s’avvicina, si fa compagno di viaggio che condivide, domanda, indica la luce dell’aurora che sta nascendo. Gesù ci invita a guardare e capire il passato, senza fughe precipitose in avanti, per capire che le nostre aspettative, la nostra stessa fede non saranno definitivamente deluse.
Ponendoci domande su quanto è successo, potrà accadere anche a noi come ai discepoli di Emmaus, di capire che nelle nostre fatiche, nelle nostre tragedie abita la forza della Risurrezione. Tutto avviene attraverso segni semplici, quotidiani: camminare, dialogare, preoccuparsi di uno sconosciuto che si è incontrato lungo la strada, mangiare insieme. Sono azioni che compiamo ogni giorno e non ci accorgiamo che in quei gesti c’è una potenza misteriosa, c’è un amore inaspettato che si rivela a nostri occhi stanchi, che non tradisce. Sì, perché la Bibbia non è il racconto di un passato lontano, ma è ancora di più parola in grado di interpretare la nostra vita e riscaldare i nostri cuori.
Lo capirono i discepoli, non subito, ma dopo aver percorso un bel tratto di strada, dopo aver ascoltato le parole di un viandante che s’era fatto compagno del loro cammino e che i loro occhi non sapevano riconoscere. «Non ardeva forse in noi il nostro cuore, mentre lui conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture» .
E’ l’invito rivolto a ogni credente, quello di mettersi in cammino: la fede è un perpetuo cammino e Dio una vetta mai raggiunta! I discepoli lo invitano a restare, a mangiare insieme. «Lo riconobbero nello spezzare il pane». Riconobbero un amore insuperabile, il corpo spezzato, la vita consegnata per diventare nutrimento di tutti. Parola e pane: cibo per i cristiani di ogni tempo, presenza del Risorto per coloro che scelgono di diventare “pezzi” di quell’unico pane nutrimento del mondo.
Le nostre comunità cristiane sanno incontrare Gesù, il Vivente, ogni domenica nella Parola proclamata e nel pane spezzato nell’Eucaristia? Gesù è sempre “straniero”, perché è sempre altro da me, so cercarlo facendo della fede un cammino da percorrere?
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