Un lavoro maledetto
Nel lavoro era coinvolta tutta la famiglia, dalle otto alle dodici ore al giorno. In miniera entravano solo il papà e i figli maschi di età dai 12 anni in su; restavano fuori la mamma e i bambini sotto i 12 anni e le bambine, che si occupavano del lavaggio e della cernita del materiale.
Quello del minatore era un lavoro più maledetto che benedetto, anche se era regolato dal vescovo: il primo Statuto del lavoro minerario fu steso, nel 1200, dal vescovo Federico Vanga, aiutato dai capi dell’Ordine Teutonico e dei Benedettini.
La condizione dei minatori sviluppò tra loro una cultura, orientata dal Codice del vescovo Vanga, ma pure dall’esperienza quotidiana (succederà anche più tardi, con i metalmeccanici e le mondine). Questa cultura si esprimeva nei comportamenti personali e collettivi, nonché nei canti popolari del tempo libero o della protesta. Qualche titolo può esserci utile per capire un aspetto della vita di una terra dove tutto diventa canto: “E la mia mamma sempre me lo diceva di star lontano da la miniera…”; “Se al mondo c’è ancora il Padreterno, mandi qualcuno a toglierci ‘sto inferno”; “Io non conosco né figli né figlie e, a quest’ora, non apro a nessun” (il rifiuto di una mamma); “Quando ero piccolina all’età di 16 anni…”; “Alla larga dai lingéra, del pinf e ponf e panf” (sono uomini pericolosi); “O santa Barbara, prega pei minatori sempre in periglio de la lor vita!”.
L’inizio della fine
A partire dal XV secolo questo mestiere comincia ad andare in crisi. Eccone i primi segni: non c’era più la saggia regia economica dei vecchi e il denaro si concentrava nelle mani di pochi; le macchine e le tecnologie usate diventavano obsolete; le “masnade” dipendevano da imprese esterne che pagavano… a piacere; il mestiere di minatore era circondato da un’aura negativa: Paolo Zammatteo nel suo libro sull’arte mineraria in Trentino (2009) ricorda che Giorgio Agricola (1494-1555) nel suo sistematico trattato sull’attività mineraria e sulla metallurgia descrive il vecchio minatore come un “girovago, decrepito, che diventa uno stregone mitologico, a causa delle troppe leggende che circolavano sul suo conto”.
La Confraternita dei canopi
Il 16 luglio 1510 si raduna a Pergine Valsugana la “Confraternita dei canopi” per preparare un nuovo statuto, concordato con i lavoratori. Seguono scontri, animati anche da frange di contadini già in agitazione permanente per la “Guerra rustica”. Gli ex minatori prendono la strada dei boschi, dei pascoli e dei campi e chi era giunto da fuori per fare il minatore s’avvia verso la propria terra: la Toscana, la Lombardia o il Tirolo del nord. Gli storici ricordano che questa “masnada di girovaghi” era ossessionata dall’antica ideologia religiosa, secondo la quale quanto succedeva di negativo era una punizione di Dio. Ma la vera ragione era un’altra: le vene del sottosuolo si esaurivano e la gente imparava a ribellarsi ad una condizione insopportabile e “poco men che servile” (dirà, più tardi, l’Enciclica Rerum Novarum). Così dall’economia dei minerali si passa all’economia e all’organizzazione capitalistica del minerario. Ne sanno qualcosa i Trentini che, negli ultimi secoli, hanno lavorato nelle miniere del Belgio, della Germania e della Svizzera, pagando un caro prezzo, fino al sacrificio della vita: si sono moltiplicati gli incidenti spesso mortali. Oggi è quanto accade nelle miniere della Cina.
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