Dal 25 marzo il governo ha sospeso tutte le attività produttive “non essenziali”. Ma non si ferma l’industria della difesa. Il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 22 marzo prevede infatti, al comma h dell’articolo 1, che siano consentite “le attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa, nonché le altre attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale”: è sufficiente che ci sia l’autorizzazione del Prefetto della provincia dove sono ubicate le attività produttive. A Cameri, in provincia di Novara, lo stabilimento del gruppo Leonardo (ex Finmeccanica), da dove uscirà il discusso cacciabombardiere F-35, il più “ambizioso e costoso sistema d’arma” del Dipartimento della Difesa statunitense non è previsto alcun fermo della produzione. E dire che sono ben lontani dall’essere risolti una serie di difetti di progettazione (883), come ha evidenziato un recente documento (del 28 febbraio scorso) reso noto dal Project On Government Oversight (POGO): e per 162 di essi non è pianificata alcuna correzione. E quello che dovrebbe essere uno dei sistemi d’arma più “intelligenti”, dopo anni di sviluppo e test, presenta ancora carenze nel suo sofisticato sistema automatico ALIS (Autonomic Logistics Information System) per la gestione delle missioni di volo, la manutenzione, l’addestramento e altro ancora, tanto che aerei pronti al volo sono costretti a restare a terra. Il sistema non funziona correttamente, ha osservato il Gao (U.S. Government Accountability Office) in un documento reso pubblico pochi giorni fa, il 16 marzo. Il ministero della Difesa statunitense sa che l’intero sistema dovrà essere riprogettato dagli ingegneri della Lockheed Martin, ma non ha risposto ad alcune cruciali domande circa il futuro sistema.
Mentre l’Italia e il mondo intero stanno affrontando la gravissima emergenza sanitaria derivante dalla pandemia di coronavirus, la Rete della Pace e la Rete italiana per il Disarmo, unendosi “alle voci di vicinanza e compartecipazione ai problemi che l’intero Paese sta vivendo, con un particolare pensiero ai familiari delle vittime e un forte sostegno nei confronti degli operatori della sanità e di chi mantiene operativi i servizi essenziali”, invitano a cogliere questa drammatica situazione come occasione per ripensare “alle nostre priorità, al concetto di difesa, al valore del lavoro e della salute pubblica”.
“Non possiamo però dimenticare – osservano le due organizzazioni, pur consapevoli che non basterebbe una riduzione della spesa militare per risolvere i problemi sanitari dell’Italia – che l’impatto di questa epidemia è reso ancora più devastante dal continuo e recente indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale a fronte di una ininterrotta crescita di fondi e impegno a favore delle spese militari e dell’industria degli armamenti”. E’ un dato, osservano, che mentre la spesa sanitaria ha subito una contrazione complessiva rispetto al PIL passando da oltre il 7% a circa il 6,5% previsto dal 2020 in poi (fonte: Fondazione Gimbe di Bologna), con un taglio di posti di lavoro e un calo di posti letto (3,2 per mille abitanti nel 2017, a fronte di una media europea di 5), la spesa militare “ha sperimentato un balzo avanti negli ultimi 15 anni: dall’1,25% rispetto al PIL del 2006 fino a circa l’1,40% raggiunto ormai stabilmente negli ultimi anni”.
“Le drammatiche notizie delle ultime settimane dimostrano come non siano le armi e gli strumenti militari a garantire davvero la nostra sicurezza, promossa e realizzata invece da tutte quelle iniziative che salvaguardano la salute, il lavoro, l’ambiente”, osservano Rete della Pace e Rete italiana per il Disarmo, indicando alcune priorità: aumento delle spese per la sanità e investimenti a favore della difesa civile nonviolenta, riduzione delle spese militari, riconversione produttiva delle industrie a produzione bellica verso il settore civile. “Già subito dopo la seconda guerra mondiale il nascente movimento pacifista chiedeva ‘Ospedali e scuole, non cannoni’, come ricordava Aldo Capitini alla prima Marcia italiana per la pace e la fratellanza tra i popoli. Dopo 60 anni ci accorgiamo che on era un sogno utopistico, ma una realistica necessità politica: oggi ci troviamo con ospedali insufficienti e scuole chiuse, mentre spendiamo troppo per le armi. Una conversione della difesa dal militare al civile è quello di cui abbiamo tutti bisogno”.
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