Covid-19, emergenza difficile per i partiti e per il governo

La BUC di Trento a orario ridotto per coronavirus. Foto Gianni Zotta

Dove stiamo andando? La domanda diventa angosciante nel momento in cui si realizza ormai che l’epidemia di Covid-19 è qualcosa di maledettamente serio. Ci si aggiunge una fiammata di crisi economica globale innescata dalla guerra del petrolio fra Arabia Saudita e Russia: complica la situazione, ma la sua profondità e durata andrà valutata nei prossimi giorni. La scelta del governo di affrontare la situazione con un provvedimento inedito di semi blocco del paese non si sa se riesce a rasserenare il clima (perché ci si compiace che alla fine si scelga un impegno radicale) o se contribuirà a renderlo più pesante (scarsa fiducia nella capacità delle istituzioni di fronteggiare emergenze che ci si arrende a riconoscere gravissime).

La reazione delle strutture del paese non è semplice da decifrare. Il governo è sembrato andare un po’ a tentoni: prima sottovalutazione, poi irrigidimento a macchia d’olio, infine irrigidimento generalizzato. Si è detto che ci si muoveva sulla base di quel che proponevano gli esperti, ma temiamo anche sulla base delle attese montate da un’opinione pubblica altrettanto ondivaga: il mutare del vento dalla sottovalutazione all’invocazione del “facciamo come la Cina” è registrata da quel che si è visto sui vari media in queste ormai molte settimane di crisi.

I partiti hanno rivelato il loro declino come strumenti di canalizzazione della partecipazione politica. Al di là della raccolta del voto essi non riescono ad andare. Quando non ci sono urne non sviluppano altro che tattiche di comunicazione che si sono naturalmente rivelate via via poco interessanti nel momento in cui la gente cominciava a realizzare la gravità della situazione. Così da un lato non hanno avuto alternative al sostenere un governo in cui credono fino ad un certo punto: non solo quelli di opposizione, che fanno di necessità virtù, ma anche quelli della coalizione di maggioranza. Dal lato opposto non hanno saputo progettare una fase di passaggio che lasciasse alle spalle una stagione politica poco felice (per usare un eufemismo) per cercare di riordinare il nostro sistema messo alla prova dal coronavirus.

L’invocazione dell’esecutivo straordinario che sottolineasse insieme l’eccezionalità del momento e quella della risposta necessaria è diventata corrente, ma più nelle riflessioni dei vari organi di stampa che in quella dei vertici politici. Solo Salvini, su spinta di Giorgetti, ha buttato lì l’ipotesi di un governo di solidarietà nazionale, ma lo ha fatto con scarsa convinzione e mettendo dei paletti poco opportuni (durata di otto mesi prima di andare a votare) sicché non si può parlare in senso proprio di una iniziativa politica. Per il resto c’è stato un grande silenzio. In parte è comprensibile, per non indebolire ulteriormente il governo in carica che doveva e deve chiedere sacrifici al paese. In parte però delegittima ulteriormente una classe politica che sembra poco capace di quella visione almeno di medio periodo che è imprescindibile in momenti di emergenza.

Al di là dei problemi che pone l’emergenza sanitaria che non sono né pochi né piccoli (per dire banalità: l’incremento e il riordino delle strutture sanitarie; la sistemazione di un anno scolastico falcidiato dal blocco) ci sono poi quelli degli interventi a sostegno dell’economia in crisi, che sono di una complessità impressionante (si tratta di fare deficit che poi andrà pagato e di evitare che gli investimenti vengano vampirizzati da profittatori). Con questa prospettiva la debolezza dell’attuale esecutivo diventa palese e tocca principalmente il partito di maggioranza nel parlamento. Con Di Maio agli Esteri come si può gestire una presenza internazionale di rilievo? E Bonafede alla Giustizia non ha dimostrato tutta la sua esilità nell’emergenza della rivolta nelle carceri?

E’ evidente che la soluzione furbesca di pensare di uscire dall’emergenza con un “super commissario” non risolverà gran che. Una figura del genere può forse gestire la parte sanitaria, ammesso che riesca a tenere sotto controllo le spinte disgregatrici di alcuni poteri regionali (finché c’è il picco ci si può riuscire; quando calerà non saremmo certi che continui ad essere possibile). La parte che genericamente chiameremo “economica”, ma che sarà anche “sociale” (perché lì incidono le crisi economiche) non può essere governata da un commissario: occorrono il premier e i ministri e poi i vari passaggi parlamentari, per non dire il confronto politico nel paese.

E’ preoccupante che siano prospettive che non sembrano presenti all’attenzione della classe politica. Forse se ne discute nelle segrete stanze, ma su temi del genere va costruito il consenso nel paese, altrimenti il nostro sistema “democratico” si troverà ad affrontare un prevedibile declino

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