Fare pausa pranzo con un buon riso fritto alla cantonese in queste giornate è diventato per molti un rischioso atto di coraggio: frottole. Semmai può essere invece un gesto di solidarietà, visto il calo di presenze che penalizza i ristoratori cinesi a seguito dell’allarme globale per il coronavirus.
Ne abbiamo avuto prova mercoledì 5 febbraio a Trento nell’accoglienza cordiale dei proprietari in un locale del centro storico che – come altri in varie città italiane – si trovano a “pagare” in mancati incassi tutti i timori, ingiustificati, di chi non vuole più consumare cibo cinese.
Se infatti è motivata l’apprensione per la diffusione dell’epidemia in Cina (confidando che presto si estingua la fase acuta), risulta irragionevole un rifiuto che non tiene conto dell’evidenza: i prodotti freschi arrivano da fornitori europei nei ristoranti cinesi, poiché importarli costerebbe troppo. E, in ogni caso, il coronavirus non si propaga per una ordinaria via alimentare.
Questa vicenda epocale – che in un mondo ormai villaggio globale collega la metropoli di Wuhan al nostro sobborgo di Sardagna, dove sono ospiti alcuni studenti cinesi in quarantena – ci consente quindi una riflessione senza tempo.
Non dovremmo mai aver…paura della paura, che è un’emozione ancestrale e quotidiana della nostra vita. E’ una compagna che ci rende attenti ai nostri passi e prudenti nelle nostre azioni; ci fa sperimentare la nostra fragilità e ci aiuta così a sentirci ogni giorno creature, misteriosamente affidate ad un Padre (per chi crede) e comunque bisognose dell’altro.
Quanto invece dovremmo cercare di evitare è la fobia, ovvero l’esagerazione irrazionale della paura. Essa ci frena, talvolta ci paralizza, ci irrigidisce in rifiuti (anche verso il nostro prossimo) del tutto ingiustificati: basta lo sforzo di attingere a qualche fonte di corretta informazione per rendersene rapidamente conto e rimuovere così il falso ostacolo mentale.
Questa autoriflessione va esercitata e condivisa con maggior frequenza, dal momento che le paure nel nostro tempo – rispetto al passato – subiscono l’ effetto moltiplicatore innescato dalla comunicazione di massa. Rispetto alla peste del 1630 – di cui il Manzoni ci offre peraltro nei “Promessi sposi“ un’interpretazione da acuto psicologo sociale – le pandemie dei nostri ultimi decenni hanno subito un’accelerazione per la velocizzazione della mobilità (in 8 ore di volo sei dall’altra parte del mondo), ma soprattutto per la deformazione di un sistema mediatico che, per vari motivi, amplifica spesso di un fenomeno gli stessi dettagli, mentre ne oscura altri”; lo annotava già dieci anni fa Umberto Folena nel suo utile “Alfabeto delle paure quotidiane” (Editrice Ancora, 2009), invitando i lettori ad “armarsi dell’unico vero anticorpo: l’abilità critica”.
E’ proprio questa che oggi ci fa affermare con documentata certezza che la sinofobia non è solo ingiustificata, è ingiusta: un atteggiamento discriminatorio o anche solo respingente verso i cittadini cinesi è una irrazionale reazione di tipo fobico. Non doveva verificarsi già a fine Ottocento nelle Nazioni colonizzatrici e non dovrà mai ripetersi, in virtù della comune umanità che fin dai primi esploratori trentini della Cina, i missionari gesuiti, è stata praticata verso i fratelli dagli occhi a mandorla.
Un giovane cinese in Francia in questi giorni ha scritto #iononsonounvirus sono un essere umano, liberami dal pregiudizio – ed il suo videomessaggio si è poi trasmesso sui social media italiani in modo beneficamente virale – è una constatazione talmente solare che dovrebbe dissolvere qualsiasi ombra di pregiudizio verso i nostri fratelli sotto il cielo di Pechino. Così come verso tante altre persone discriminate da ogni genere di xenofobia
Lascia una recensione