Adesso che abbiamo in mano i risultati delle regionali in Emilia Romagna e Calabria è l’ora delle interpretazioni. A dispetto di tutti quelli che continuano a dire che si tratta di fatti “locali”, è più che evidente che si è trattato di un test nazionale. Appunto un test, il che non significa far discendere da quei dati un quadro definito, ma semplicemente prenderli per importanti segnali di mutamenti che interessano la politica italiana. E’ un cambio di stagione, e, come insegna la metafora, il passaggio da una stagione all’altra non è immediato, ma ha una fase intermedia in cui si alternano momenti che sono la coda della vecchia e momenti che sono l’anticipo della nuova.
Così è per questo passaggio politico che va inquadrato in quel che è accaduto sin qui e misurato per quel che è possibile su ciò che ci aspetta, cioè un’altra stagione di prove elettorali (sei regioni e più di mille comuni entro giugno prossimo).
Il primo dato è il ritorno ad una spaccatura bipolare nel paese. Questo è, piaccia o meno, opera di Salvini che concentrando tutto su di sé come portatore di una proposta di neodestra radicale ha spinto tutti coloro che non la accettano a fare blocco insieme. Non parliamo dei partiti, che non hanno di queste generosità, parliamo della gente: lo dimostra la rinascita della capacità di aggregazione del PD appena questi sappia, come in Emilia, mantenere un profilo da classe dirigente senza avventure. Basta vedere i risultati in quella regione per rilevare non solo la disintegrazione dei Cinque Stelle, ma anche quella dell’estrema sinistra, con le altre componenti che o sono rimaste a bordo campo o hanno creato piccole liste di fatto di supporto al PD.
Il secondo dato è che l’Emilia Romagna non può essere considerata lo specchio dell’Italia, perché il voto in Calabria rivela una spaccatura Nord/Sud su cui sarà bene riflettere. In quella regione non ha semplicemente vinto il centro destra, ha vinto la galassia berlusconiana, con la Lega che ha un buon risultato, ma lontano da qualsiasi egemonia. Vediamo così che il bipolarismo non ha in quelle terre la valenza del confronto fra opposte visioni politiche come in Emilia, ma quello della competizione fra diversi gruppi di potere che a destra prediligono la tradizionale enclave berlusconiana, mentre a sinistra non riescono a liberarsi dalle lotte di clan finendo marginalizzati.
Infine c’è il tema del governo nazionale che non esce affatto rinforzato come taluni si ostinano a sostenere. Certo non ha il problema di temere un ricorso a breve ad elezioni anticipate, ma questo più per una serie di impedimenti tecnici allo scioglimento delle Camere che per un rilancio della coalizione di governo. Anzi questa viene messa in questione dal voto di domenica scorsa. Deve fare i conti con un M5S partito di maggioranza in parlamento, ma scosso da continui terremoti interni, sicché ondeggerà fra l’ostinazione a far valere la propria forza provando ad imporre le sue bandierine (prescrizione, concessioni autostrade, ecc.) e la paura di non riuscire a contenere la fuga di suoi parlamentari.
Poi c’è un PD che ha ritrovato orgoglio e fiducia, ma è anch’esso incerto sul che fare: ottenere una chiara capacità di guida per rafforzare la sua capacità di attrazione del consenso elettorale, o accettare il ruolo di supporto a Conte nella speranza che egli rimetta insieme i cocci dei Cinque Stelle sopportando a questo fine che non si ripudino i mantra grillini?
Conte si è già buttato in quell’impresa e bastava sentirlo dalla Gruber lunedì scorso per rendersene conto: tutto un discorso attento a riproporre vaghi slogan para-grillini, ad evitare di apparire come in asse col PD, a proporre una evanescente ideologia “progressista” che non si capiva né cosa fosse, né dove andasse a parare.
Quanto possa reggere politicamente un’operazione funambolica di quel genere è tutto da vedere. Innanzitutto dovrà fare i conti con tutti i tentativi di costruire un’alternativa che per intenderci chiameremo “centrista” al pateracchio pseudo progressista del grillismo riveduto da Conte in connessione con un certo tipo di PD. Ci lavora Renzi, ma non solo. Poi bisognerà vedere se lo stesso PD non decida invece di prendere con chiarezza la strada di un partito che punta decisamente sulla scelta riformista recuperando appieno un rapporto con quei ceti dirigenti che lo guardano con perplessità e inglobando, ma tenendoli sotto tutela, le istanze movimentiste e il sinistrismo di maniera tanto caro a molti ambienti intellettuali che vorrebbero fare le sue mosche cocchiere.
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