“Un momento fantastico!”. E’ ciò che Boris Johnson ha preannunciato per le ore 23 del 31 gennaio, l’ora in cui la Gran Bretagna lascerà l’Unione Europea. Sarà illuminato il Big Ben e il primo ministro inglese si rivolgerà solennemente alla nazione. Che cosa ci sia da festeggiare lo sa solo Johnson.
Forse egli pensa alla fine dell’interminabile psicodramma che dal referendum sulla Brexit, nel giugno 2016, ha accompagnato l’intera vita politica e istituzionale britannica. Due primi ministri di Sua Maestà, David Cameron e Theresa May, sono stati costretti alle dimissioni e lo stesso Johnson ha dovuto sciogliere il Parlamento per conquistarsi la maggioranza sufficiente per chiudere la partita con l’UE.
In realtà il 31 gennaio Londra lascia la UE per entrare in un periodo di transizione verso un nuovo rapporto di tipo commerciale con Bruxelles. Ciò significa che gli inglesi non parteciperanno più alle Istituzioni comuni, dalla Commissione al Parlamento europeo, ma dovranno restare all’interno dell’Unione doganale e del mercato unico senza poter influire sulle decisioni che nel frattempo dovessero essere prese dai 27. Non proprio un inno al sovranismo, tanto predicato da Johnson. E’ vero che la transizione negli auspici di Downing Street durerà solo un anno, ma è molto probabile che un diverso accordo con l’UE non sarà facile da ottenere in così breve tempo e il rischio di un’ulteriore proroga è dietro l’angolo. E’ questa la conferma che la storia dell’Inghilterra nei confronti dell’UE è stata contrassegnata da continui paradossi. All’inizio “fuori” dalle originarie Comunità, la Ceca nel 1952 e la Cee nel 1957, pur avendo partecipato alla redazione dei rispettivi Trattati. Poi continue richieste di essere ammessi “dentro” fino al 1973 anno della agognata adesione. Infine, una volta “dentro” ripetute richieste di tenersi “fuori” dai maggiori progressi dell’integrazione, dall’Euro a Schengen.
Insomma la tipica natura e mentalità inglese ben riflessa in un famoso titolo del Times: “Nebbia sulla Manica, il Continente tagliato fuori”, come se il continente fosse l’isola e non viceversa. Oggi Boris Johnson spera di tornare indietro alle origini inventandosi una “Global Britain” capace di confrontarsi con il resto del mondo una volta eliminati i vincoli delle politiche dell’Unione europea. Ma oggi il mondo rispetto a 70 anni fa è radicalmente cambiato e la stessa Gran Bretagna ne è uscita notevolmente ridimensionata.
Il suo potere economico, dopo Germania e Francia, è stato in gran parte favorito dalla sua partecipazione al grande mercato unico europeo fortemente voluto, fra gli altri, da Margaret Thatcher a metà degli anni ‘80. La sua progressiva de-industrializzazione è stata compensata da servizi finanziari e del terziario forniti liberamente all’Unione. Lo stesso Tesoro inglese in un rapporto del 2018 prevede che una liberalizzazione di mercato solo parziale con l’UE potrebbe portare ad una riduzione del 6,7% del Pil in 15 anni (130 miliardi di sterline in meno). Insomma uno scenario non proprio incoraggiante. Eppure Boris Johnson pensa di rifarsi con un rapporto di ferro con gli Usa, anche sulla base delle ripetute promesse di Donald Trump.
Ma c’è davvero da fidarsi? La guerra commerciale che Trump ha intenzione di condurre contro l’UE non dovrebbe essere una buona notizia per Johnson. Dazi più alti nei confronti dell’Europa finirebbero inevitabilmente per ripercuotersi anche sul futuro accordo Gran Bretagna-UE, con quest’ultima obbligata ad aumentare le difese tariffarie. L’importanza del mercato interno dell’Unione per Londra è tale, e lo sarà ancora per il prevedibile futuro, che a soffrirne di più sarebbe proprio il nostro ex-partner.
Comunque vada, il 31 gennaio sarà un pessimo giorno, non solo perché esso segna il primo abbandono di un membro di grande peso dell’UE, ma anche perché, dopo l’ultima grande guerra, reintroduce in Europa la vecchia filosofia politica di definire i rapporti reciproci fra stati su base bilaterale e in considerazione del potere (anche di ricatto) che ciascuno è in grado di esercitare. Tutto il contrario di quanto ha voluto significare il processo di integrazione europea, nato dalla lotta contro i nazionalismi, fonti di conflitti e ingiustizie. L’UE per sopravvivere dovrà evitare di abbassare la guardia di fronte a questa subdola sfida e riavviare il cammino verso una maggiore integrazione politica fra i rimanenti 27 Paesi o, se impossibile, almeno con quanti vorranno starci.
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