Israele verso il voto

Il primo ministro Benjamin Netanyahu. Foto Agensir

In Israele si va nelle prossime settimane, a marzo, alla terza elezione generale legislativa in meno di un anno. Segno di una stagnazione del sistema che non riesce a trovare sbocchi istituzionali stabili e duraturi. Il primo ministro Benjamin Netanyahu non può permettersi di apparire come un premier debole nei confronti dei palestinesi, la sua volontà di voler riannettere parte dei territori arabi sotto occupazione trova una esplicita adesione dei movimenti nazionalisti più oltranzisti (quelli che sognano la “Grande Israele”), ma ormai una buona parte della società israeliana è laica nel senso più pregno del termine, rifiuta modelli religiosi di qualsiasi tipo, specie se divisivi.

D’altro lato non sono pochi neppure gli integralisti religiosi, gli ebrei ortodossi (haredim), che rifiutano qualsiasi attività pratica, si dicono “chiamati” alla lettura del Libro con la pretesa di essere mantenuti dalla collettività. Il fatto di essere esentati dal servizio militare ha fatto cadere più di un governo israeliano. Il loro è un rifiuto in blocco della modernità, rappresentano un buon quinto dell’elettorato e quindi sono appetiti all’unisono dal blocco ultraconservatore. Dall’altra parte gli arabi israeliani, anch’essi attorno al 20%, presenti massicciamente a Gerusalemme est, ma cittadini di serie b, privi di diritti elementari.

E dire che l’Assemblea dell’Onu del 29 novembre 1947 sulla spartizione del Mandato britannico in Palestina dava il via allo Stato israeliano con l’intento – l’auspicio – di crearne due: uno arabo e uno ebraico, solo che quello arabo non venne mai creato. Una situazione che si trascina da allora, inframmezzata da guerre e rivalità, una difficilissima convivenza forzata, inimicizie sedimentate che si rispecchiano nello status quo attuale.

Vi sono contraddizioni insistenti che pesano sul nuovo esecutivo di Tel Aviv – qualunque sia quello che uscirà dalle urne di marzo – come il fatto della volontà di annessione dei territori palestinesi che però porterebbe fatalmente a quell’equilibrio demografico, tra ebrei e arabi, che proprio i fautori più intransigenti dello Stato Ebraico disdegnano. Insomma una situazione del tutto fluida e precaria.

Sia il più nazionalista Likud di Benjamin Netanyahu che il centrista “Blu e Bianco” di Benny Gantz non potranno esimersi dal fare scelte oculate, attente agli equilibri, alle spinte centrifughe che possono rivelarsi fatali per un futuro di stabilità – auspicato dalle cancellerie occidentali, agognato dalla gente in maggioranza – non solo dello Stato israeliano, ma dell’intera regione mediorientale.

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