Medicina, un grazie a Padova per il suo “passo indietro”

Corsia di ospedale

Lo spunto

Seguo sui giornali le notizie relative al possibile avvio di un corso di laurea (o facoltà?) di medicina all’Università di Trento e devo dire che rimango abbastanza sconcertato per le contraddittorietà che incontro. Non è certo una “colpa” della stampa, che riferisce ciò che sa o scopre, quanto di una situazione che sta diventando, mi sembra, sempre più confusa. Tralasciando le “puntate precedenti”, su “l’Adige” di sabato 11 gennaio si legge chiaramente che Padova ha ritirato il suo progetto e alle pagine 12-13 se ne analizzano le ragioni. Fra queste gli altissimi costi che esso richiederebbe (una fidejussione per sostenere 60 cattedre per 15 anni, cattedre da riassorbire eventualmente, nell’ateneo trentino). Nel giorno successivo appare invece che gli studenti (non di medicina!) giudicano il progetto “rilevante” (con alcuni rischi …) e rilanciano la visione geopolitica volonterosa (per usare un eufemismo) di un “asse accademico virtuoso dal Tirolo e Verona”, prospettiva che chi ha un po’ seguito le vicende dell’autonomia sa quanto sia difficile, se non improbabile.

Sul “Corriere del Trentino” dello stesso giorno (domenica) si dà poi notizia che addirittura sarebbe già stata trovata una sede per Medicina, individuata in Palazzo Consolati (proprietà Toxon Spa) in via Santa Maria Maddalena, andando da Largo Carducci verso il Conservatorio. Mi domando: ma è una cosa seria fare Medicina così?

G.C.

Seguendo questa storia, forse scappata di mano a chi l’ha promossa (ed è strano che nessuno abbia ancora ricercato strade e intrecci che hanno eventualmente portato il suggerimento in Provincia) par quasi di assistere a quell’opera famosa, dal titolo emblematico, “La forza del destino” , in cui tutti ripetono “Partiam, partiam, partiamo …”, ma nessuno si muove dal palcoscenico.

Allora prima che lo spettacolo finisca (in fiasco o in fischi?) val forse la pena fermarsi un poco su due punti importanti.

Il primo è la ferma risposta corale dell’Università trentina (che certo non meritava un simile trattamento), il secondo la saggia decisione padovana di “ritirare la sua disponibilità”. C’è modo di ripensare al tutto quindi, mettendo a fuoco i problemi veri. E il primo è che il Trentino non ha bisogno di una facoltà di Medicina, ha bisogno di ripensare la sua politica sanitaria. La Sanità nel Trentino resta ottima, ma molti segni mostrano un progressivo sfilacciarsi di relazioni e presenze. Manca una visione sul futuro e la capacità di affrontarlo.

Le recenti scelte di “razionalizzazione” (abbinamento di primariati, pendolarismo ospedaliero …) hanno diluito le responsabilità e depotenziato le disponibilità, creando confusione e sfiducia.

In ambito sanitario la fiducia è la base di tutto. Non è un caso che, rispetto solo ad alcuni anni fa, il dieci per cento delle donne – già poche – che vogliono mettere al mondo un figlio vadano a farlo nascere fuori dal Trentino. Non è un caso che i medici messi in pensione ancora nel pieno della loro attività, senza che sia stato programmato un adeguato ricambio, abbiano più impegni da pensionati che prima.

Non è un caso che i giovani laureati trentini in Medicina, a differenza dei loro padri e nonni, stentino a rimanere sul territorio, dove pur c’è lavoro, guadagno e qualità di vita, perché ritengono che non vengano date loro opportunità e stimoli. E se uno studente trentino fa Medicina (studio complesso, che ha bisogno di istituti, confronti, tirocini …) nella sua città (dove è rimasto dall’asilo alla laurea) sa che di prospettive ne avrà ancora meno. I medici mancano per gli errori nazionali gravi sul numero chiuso e perché non vengono affrontati altri due nodi: quello delle specializzazioni e quello del rapporto con il territorio, che non basta un elicottero a colmare. L’elicottero è un mezzo eccezionale, ma non è possibile impostare il sistema sanitario sui suoi voli, né per le partorienti, né per i medici.

Occorre allora forse ripartire dal basso, dai medici di base, restituire loro almeno in parte quella professione-missione che avevano i (rimpianti) medici condotti. Oggi i medici di base (spesso autentici “cirenei”, che portano croci altrui e suppliscono a infinite carenze) sono costretti a guardare più lo schermo del computer che il volto dei pazienti, più contare il tempo della prenotazione che ascoltare. Il medico non è un tecnico, è un professionista che a chi gli si rivolge dà tutta la sua scienza e coscienza. Ma per darle deve averne anche il tempo, altrimenti la sanità si dequalifica e i pazienti si affidano a quella “superstizione di ritorno” sempre più diffusa, come il crescente consumismo verso il farmaco e le rivolte anti-vaccino dimostrano.

Quanto all’ ateneo trentino fa bene a resistere. Una Medicina costosissima, quando a un’ora di treno esistono due ottime facoltà, Verona e Padova, è destinata inevitabilmente, per mancanza di contesto, a diventare di serie C rispetto alle grandi scuole del Paese, suscettibile di scardinare la qualità dell’ateneo trentino, e la sua possibilità di attestarsi fra le piccole (guai crescere troppo!) università d’eccellenza. Ma non ci sono solo “facoltà”, ci sono istituti di ricerca e specializzazioni da incentivare, borse di studio da assegnare, posti di lavoro per specializzati da prospettare e organizzare.

In realtà l’impressione è che la proposta della facoltà medica sia la classica fuga in avanti per mascherare l’incapacità di risolvere problemi concreti più vicini. Il populismo è sempre una confessione di impotenza. Per nascondere ciò che non riesco a fare rilancio il gioco. Si scorda così facilmente che la Provincia che vuole 60 cattedre di Medicina è al palo nella costruzione del nuovo, necessario ospedale. E si fa la facoltà avendo il Santa Chiara come clinica? Sembra ben opportuno fermarsi, e ripensare il tutto.

vitaTrentina

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