In questo autunno incipiente (ma in America Latina si va verso la bella stagione primaverile) è tutto un subbuglio in Sudamerica, a partire dal Brasile dove cresce il malcontento popolare nei confronti di un presidente, Jair Bolsonaro, inetto e incapace ad affrontare la gravissima crisi pan amazzonica. In Venezuela il regime si sta rinchiudendo su se stesso, governa con il pugno di ferro, aumentano i prigionieri politici, l’opposizione è inconcludente (per non dire inesistente ormai) e le sanzioni non fanno che peggiorare tutto a danno della povera gente. In Ecuador dopo contestazioni e proteste che per 13 giorni hanno paralizzato il Paese governo, indigeni e organizzazioni sociali hanno trovato un accordo. Persino in Bolivia, l’ex leader dei cocaleros, Evo Morales, dopo 13 anni di potere in cui ha certamente affrontato positivamente i temi della povertà endemica, mostra qualche segno di stanchezza e logoramento. L’Argentina (si veda sotto) è di nuovo sull’orlo del fallimento.
Ma è in Cile che in questi giorni la situazione sta diventando incandescente. Scontri con morti e feriti non solo a Santiago, ma pure a Valparaisio, Antofagasta, nelle principali città. La miccia è scoppiata dopo che è aumentato il costo del biglietto dei trasporti pubblici da 800 a 830 pesos (da 1.01 a 1.05 euro, per dire). Un’inezia. Ma è la goccia che ha fatto traboccare il vaso della rabbia e della frustrazione popolare.
Sono soprattutto i giovani e giovanissimi che inondano le strade e le piazze. E per la prima volta dai tempi della dittatura di Pinochet sono riapparsi i carri armati e i soldati sparano sulla folla.
La questione di fondo è che in Cile – ma in tutto il subcontinente – la povertà, dopo che era un po’ diminuita, ha ripreso triste vigore, e le diseguaglianze aumentano paurosamente tra i pochi che diventano straricchi (un affronto) e la gran parte della popolazione che vede erodere il proprio potere d’acquisto e le possibilità di una vita migliore.
I fatti tragici smentiscono clamorosamente il presidente cileno Sebastian Pinera che fino a qualche giorno fa definiva il Cile “un’oasi felice”. Undici milioni di cileni (su 18) dicono di essere costretti a contrarre debiti. Il 70% vive con salari e stipendi insufficienti ad arrivare a fine mese. Mentre i proventi del rame cileno vanno alle multinazionali che fanno soldi a palate (la più grande miniera del mondo, a Escondida, nel deserto di Atacama, è di proprietà del gruppo anglo-australiano Bhp Billiton che vi estrae 1,1 milioni di tonnellate di rame all’anno, un Eldorado!).
E’ tutta qui l’origine delle proteste, la gente non ce la fa più e si fa sentire. E viene repressa, uccisi i giovani. Non è facile governare, ma certe politiche economiche di privilegio con inevitabili nefasti risvolti sociali sono un insulto al buon senso e gridano al cielo.
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