Riprendiamo il filo del discorso avviato su Vita Trentina del 22 settembre, a proposito degli incentivi alle imprese che, per essere efficaci, dovrebbero stimolare investimenti aggiuntivi e competitività, ma anche benefici per il territorio. Questi ultimi, se l’impresa è seria, sono molteplici: dall’occupazione alle tecnologie di protezione ambientale e risparmio energetico; dai ritorni fiscali alle nuove conoscenze; dai beni e servizi offerti a particolari fasce di consumatori alle opportunità per il mercato e il credito locale, passando per le pratiche innovative che le buone imprese fanno circolare lungo la catena della fornitura (la cosiddetta «innovazione aperta»). Non tutti questi benefici sono misurabili, ma piuttosto probabili, per cui l’interrogativo non è «se», ma «quanto» e «quando» essi si avverino, e se siano «addizionali», cioè determinati dagli incentivi. Se le risposte fossero rispettivamente «poco», «tardi» e «no», gli aiuti alle imprese sarebbero uno spreco.
Mettiamoci ora nei panni dell’ente pubblico, che deve disciplinare e poi concedere gli aiuti, trovandosi di fronte ai suddetti interrogativi. Uno scoglio enorme, perché si tratta di scrutare nel futuro e nelle recondite intenzioni delle aziende. Con sano (?) pragmatismo politici e burocrati hanno perciò risolto a modo loro il problema: invece che affidarsi agli automatismi di mercato, siano le stesse aziende sussidiate a garantire i benefici collettivi sperati. Nasce così una serie di obblighi, differenziati secondo l’entità dell’iniziativa agevolata, che predeterminano puntualmente le ricadute economiche sull’impresa e gli effetti economico-sociali per il territorio, in particolare: il numero di lavoratori occupati; i tempi di realizzo dell’investimento; i tempi di utilizzo dei beni agevolati e di permanenza in Trentino dell’attività aziendale; eventuali collaborazioni con enti o istituzioni in progetti di filiera o di economia solidale; le condizioni economico-finanziarie e fiscali, fra cui il versamento in loco dei tributi e il livello di patrimonializzazione, in modo che siano le risorse messe a rischio dall’imprenditore a sancire la serietà dell’iniziativa; e altro ancora. Un insieme di vincoli che la Provincia ha applicato con zelo, benché da taluni ritenuti antistorici, la cui espressione più compiuta si ha nella «procedura negoziale», un accordo con l’impresa sullo scambio incentivo-interesse pubblico, che coinvolge anche il sindacato.
Problema risolto? Non proprio, perché non è dato sapere se questi speciali obblighi, limitati nel tempo e derogabili, aggiungano qualcosa ai piani che l’impresa attuerebbe comunque. Tuttavia, il costo implicito posto a carico della stessa (il rischio di revoca dell’aiuto) per impegnarla a comportamenti altrimenti liberi, è per l’ente pubblico una sorta di «polizza di assicurazione» sul conseguimento di determinate utilità sociali, che, anche se non ne è certa l’addizionalità, sono comunque garantite. Ciò risulta molto utile nei casi e momenti più critici, per indurre le imprese a soluzioni socialmente accettabili, e fa perdere un po’ di presa agli studi non incoraggianti che sul tema compaiono in genere a distanza di anni, quando tutto è già successo e incorporato in un sistema stabile come il nostro. Scherzosamente, potremmo infatti paragonare i malumori postumi sugli aiuti alle imprese a quello di un signore che, stipulata un’assicurazione sulla vita, dopo anni si rammarica dei premi pagati essendo rimasto vivo.
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