Volontaria in servizio civile nazionale in Uganda, ha tracciato, con Pierino Martinelli di Farete, un quadro incoraggiante della cooperazione internazionale
Vi sono aree dove trionfa sinistra la miseria, in cui fame, malattie, guerre e degrado sociale sono un’esiziale costante. Periferie del mondo che spesso gli occidentali conoscono a malapena, se non fosse per quanto, anche distorto, filtra dai media. Eppure c’è chi in questi coni d’ombra entra in punta di piedi rimboccandosi le maniche per restituire sprazzi di speranza, senza imporre alcunché né cercare di estrarre dal cilindro soluzioni che non di rado a beneficio delle stesse popolazioni non sono. Chi opera nel mondo della cooperazione internazionale non è un qualsivoglia benefattore, è una persona preparata e sa come e quando intervenire. Di certo non è un “mestiere” adatto a chi ama circondarsi di comodità. A parlarne è stato Pierino Martinelli, direttore generale di Fondazione Fontana onlus e coordinatore di FArete, realtà estesa a 58 organizzazioni di cooperazione internazionale su 270 attive in Trentino, riflettendo e dialogando con il pubblico intrattenuto in biblioteca a Vezzano. Quale ambiente più appropriato, infatti, se non quello circondato da libri a scaffale aperto dove “si fa anche esercizio di accoglienza rispetto alle specificità individuali” Perché, prosegue la responsabile Sonia Spallino, “lavorare insieme nell’ottica della reciprocità è importante, serve a custodire la vita e consentire la piena fioritura dell’umanità”.
La serata di approfondimento incastonata nella rassegna culturale “Tutti i colori della pace” caduta alla vigilia della Settimana dell’Accoglienza ha lasciato spazio al vissuto personale di Silvia Orri.
Volontaria in servizio civile nazionale tramite la Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario), Silvia ha vissuto nei villaggi ugandesi apportando il proprio contributo umano e professionale con finalità di solidarietà sociale incentivata dal basso. E’ uno dei progetti di cooperazione internazionale ispirati a un approccio di sviluppo comunitario e partecipativo per un mondo più giusto e dignitoso, contaminato da quei valori di uguaglianza e reciprocità che sono i primi veri agenti di cambiamento.
“I migliori progetti di cooperazione internazionale – rileva Martinelli – sono quelli in cui si fa fatica, si maturano relazioni positive e non prevalgono le illusioni, ma per avere impatto dovrebbero durare nel tempo, almeno una decina di anni, e non essere studiati a tavolino”.
Rientrata insieme ad altri giovani “caschi bianchi” lo scorso autunno dal Karamoja, “che non si può non amare nonostante le sue tantissime contraddizioni”, nei suoi dodici mesi spesi in attività di protezione dei bambini da situazioni di abuso, sfruttamento, abbandono e violenza all’interno della famiglia, della scuola e della comunità locale, la giovane volontaria trentina ha cercato di ascoltare senza giudicare, di osservare senza paragonare, di parlare senza filtrare, prestando la massima attenzione alle soggettività. “Prima di lanciarsi in un’esperienza come questa – avverte – è importante domandarsi perché partire e superare certe logiche”. Come quella che si allaccia allo spirito del dono, prospettiva del Terzo settore che si allontana decisamente da ogni tipo di dilettantesca filantropia. “Tutti danno e tutti ricevono, e io ho ricevuto più di quanto ho dato – riflette Silvia volgendo la mente all’accoglienza ricevuta dalle tribù Karimojong -. Sono io che devo ringraziare loro, non viceversa, per cui non vorrei mai essere definita, come fanno certi giornali, un angelo custode”.
Per lei, come per altri che parimenti vi si cimentano, un’esperienza arricchente e accogliente, di quelle che “lasciano il segno”. È l’accoglienza che si prova respirando la cultura tradizionale africana quando per l’arrivo di un’ospite c’è ragione di fare festa.
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