“I fotogiornalisti hanno un’idea di come vogliono rappresentare una situazione e ciò comporta il rischio di falsarla. Nelle mie fotografie non ci sono finzioni: non chiedo alle persone di mettersi in un posto o di assumere una posa”. Mostrare guerre, carestie, conflitti, povertà ma senza dimenticare il rispetto per le persone è la regola etica al cuore del lavoro di Lorenzo Tugnoli, il fotogiornalista italiano rappresentato dall’Agenzia Contrasto, originario di Lugo, in provincia di Ravenna, che il 16 aprile ha vinto il Premio Pulitzer per la fotografia 2019 nella categoria Best feature photography-Miglior servizio fotografico, con un reportage realizzato per il Washington Post nel 2018 sulla carestia e la crisi umanitaria in Yemen. Un riconoscimento che si è aggiunto al premio ottenuto sempre in primavera nella sezione General News della 62 edizione del World Press Photo Contest, il più prestigioso concorso di fotogiornalismo mondiale.
Della sua esperienza e passione per la fotografia, che lo ha portato ad abbandonare gli studi di Fisica all’Università di Bologna per poi trasferirsi a New York, e in seguito a Londra, iniziando a lavorare seriamente come fotografo a Kabul, Tugnoli ha parlato insieme a Barbara Cappello, presidentessa Fida Trento, durante la Lectura pubblica dedicata a “Alterità e racconto” svoltasi domenica 15 settembre, a palazzo Geremia. L’incontro rientrava nella serie di appuntamenti previsti nell’ambito della VI Biennale di Fida Trento, dedicata a “Kósmos Kairós Ánthrōpos” inaugurata il giorno precedente, di cui Tugnoli è stato ospite d’onore. “Lorenzo è apostolo nel senso di inviato, testimone – ha esordito Cappello -: la sua è una narrazione scritta con la fotografia in cui riporta situazioni di conflitto, ma anche di vita quotidiana, cogliendo la voglia di vivere che caratterizza le persone e l’immagine rende visibile quell’attimo di poesia che dà la spinta per andare avanti nonostante tutto”. Lo scatto è appunto ciò che realizza il “Kairós”, il tempo non quantificabile perché irripetibile e unico. “Ho iniziato a fotografare in modo spontaneo – ha raccontato Tugnoli, che collabora regolarmente con il Washington Post, New York Times, Wall Street Journal, Time Magazine e L’Espresso -, poi con il tempo ho capito che per me si tratta di raccontare un modo di guardare una parte del mondo e questo implica un lavoro di rappresentazione molto delicato perché le fotografie costruiscono il nostro immaginario e possono influenzare le opinioni”. È appunto il modo in cui guardiamo a fare la differenza e questo “modo” è il soggetto della mostra di Tugnoli: “Nel 2009 sono andato in Afghanistan per la prima volta, era in corso la più grande missione delle Nazioni Unite e sono rimasto 5 anni. Insieme a Francesca Recchia mi sono occupato di una dimensione ignorata dai media, 4 realtà artistiche di Kabul”. Questo lavoro è confluito in “Il piccolo libro di Kabul”, pubblicato nel 2014, un ritratto della capitale dell’Afghanistan attraverso la vita di tutti i giorni degli artisti che vivono lì. In seguito, Tugnoli si è spostato in Medio Oriente, andando a Hebron, nel sud della Cisgiordania, dove la presenza dei coloni israeliani nel centro della città crea grandi difficoltà di convivenza, e nel 2015 si è trasferito a Beirut, in Libano, dove abita da 4 anni cercando di imparare l’arabo e sperimentando la complessità culturale di un paese in cui vi sono 19 religioni ufficiali.
Ma cosa comporta viaggiare e vivere in zone di conflitto? “Quando ho iniziato c’era lo spaesamento di essere in luoghi diversi in poco tempo, alla sofferenza invece non ci si abitua mai e il lavoro in Yemen è stato duro: sono rimasto due mesi e mezzo, lavorando insieme a giornalisti locali con l’intenzione di mostrare le conseguenze del conflitto. Per mantenere l’equilibrio cerco di concentrarmi e di costruire una rappresentazione che, avvicinandosi con delicatezza, renda onore alle persone”. Il reportage documenta i campi dei rifugiati, gli ospedali e la linea del fronte ed è stato possibile grazie all’investimento di risorse del Washington Post, scelta non usuale da parte del giornale, ed è valso a Tugnoli il Premio Pulitzer per il suo essere un “fantastico racconto fotografico della tragica carestia nello Yemen, mostrata attraverso immagini in cui bellezza e composizione si intrecciano con la devastazione”. “Cerco di mettere insieme due necessità del fotogiornalismo: raccontare il dramma per comunicare quanto sia forte la crisi e rappresentare con rispetto l’umanità di chi fotografo. Il mio lavoro – ha concluso Tugnoli – è come eseguire un assolo di jazz e quello che sto provando a fare è appunto dare a esso un certo sapore e atmosfera”. Quella che emerge nel difficile equilibrio fra tragedia e poesia, e in accorgimenti come usare piccole macchine fotografiche – Leica e Sony -, per non invadere l’intimità delle persone.
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