Le incognite del negoziato con i talebani
Trump ormai ha deciso: ritirerà i soldati americani dall’Afghanistan entro un anno, la data dovrebbe essere la fine del 2020. Il negoziato con i talebani è a buon punto –dicono all’unisono all’Amministrazione americana, John Bolton, consigliere per la sicurezza e Mike Pompeo, segretario di Stato. Solo che man mano che si avvicina quella data che prevede –ricordiamolo- il ritiro di tutte le forze straniere, compresi quindi anche gli italiani, dense nubi si addensano all’orizzonte dei cieli afghani. Le stragi prima di tutto: devastanti, ripetute in questi ultimi mesi. I momenti più opportuni sembrano essere i matrimoni quando gli invitati sono centinaia dove uomini e donne assistono in zone separate e formano come dei bersagli ben individuabili da parte dei kamikaze. A rivendicare gli attentati sono quelli dell’Isis –redivivi, come rinvigoriti- non i talebani, che dominano in diverse parti del territorio e che hanno scelto una diversa strategia. Anzi, nel corso dei negoziati, hanno garantito che l’Afghanistan –una volta ritirati i 14mila soldati americani e gli altri alleati- non diventerà un santuario jihadista internazionale. E il governo di Kabul? Obtorto collo si vede costretto ad accettare le decisioni prese da altri, è un governo assai debole e molto corrotto (in genere i ministri cambiano sovente e i funzionari governativi ne approfittano della carica per arraffare tutto quel che possono per tornarsene poi ai loro affari privati). Adesso, a settembre, per dire, ci sono le elezioni presidenziali ma sembra un evento sottotono, di assoluta secondaria importanza. Quel che suscita invece maggiori speranze e –specularmente- soverchie apprensioni è il rientro in patria di Ahmad Massud, il trentenne figlio di Ahmad Shah Massud, il “leone del Panshir” assassinato il 9 settembre 2001, un paio di giorni prima degli attentati alle Torri gemelle a New York, l’unico leader afghano riuscito a resistere prima ai sovietici, poi ai talebani. Per ora il giovane leader ha deciso che non parteciperà alle elezioni di settembre, ma prepara il terreno, visita i villaggi, ascolta la gente, parla con loro, a cominciare dalle donne che faticosamente cercano di uscire dallo stato di soggezione e subalternità ancestrale. E’ consapevole che un nuovo –più giusto- Afghanistan passa inevitabilmente da un ruolo protagonista delle donne e dalla cultura cui devono finalmente avere accesso, senza discriminazioni e senza remore, quando in realtà tanti fattori sembrano ancora remare contro a cominciare dalla potenza ancora intatta dei War Lord, i “signori della guerra” che hanno tutto l’interesse allo status quo e al più totale immobilismo. Vedremo se questo giovane Massud che ha studiato al King’s College di Londra e che già sta suscitando speranze diffuse che vanno consolidandosi riuscirà a farsi promotore di un vasto rinnovamento del tessuto sociale afghano, a superare sterili diatribe e diffusi micro conflitti per la dominazione dei mercati della droga e degli stupefacenti, fonti di enormi profitti per alcuni. Speriamo.
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