Da san Francesco a Shakespeare, il nostro satellite ha nutrito l’ispirazione di poeti e scrittori. Fino a quel 20 luglio 1969…
Entità misteriosa e lontana, presenza spesso dolce, ma talvolta inaffidabile e inquietante: questo è stata la Luna dai primordi della letteratura fino al fatidico 20 luglio del 1969, quando l’astronauta Neil Armstrong la segnò – marcando l’apice di un’intera epoca di studi scientifici e di tecnologia – con l’impronta del suo piede.
Ma… ascoltiamo i poeti e gli scrittori. Due grandi voci della poesia medievale, San Francesco e Dante, salutarono la Luna enunciandone la presenza familiare nel firmamento: “Laudato si’ mi Signore, per sora luna e le stelle” è un verso del Cantico delle Creature del frate di Assisi; e l’Alighieri, nella Divina Commedia, le dedica non solo la discussione scientifica che svolge con Beatrice nel canto II del Paradiso, bensì la definisce al poeta Forese Donati “sorella del sole” (Purgatorio, XXIII).
Un ruolo assai diverso ebbe il nostro satellite naturale nell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto: è divenuta il luogo – una sorta di specchio distorto del nostro pianeta – dove si trovano tutte le cose perdute sulla Terra (“ciò che in somma qua giù perdesti mai / la su salendo ritrovar potrai”). Astolfo, in groppa al leggendario Ippogrifo, viene incaricato da Dio di recarvisi per recuperare il senno perso da Orlando: pazzamente innamorato di Angelica, il paladino non riusciva più a ritrovare il lume della ragione né la via per praticare le virtù cristiane. In Romeo e Giulietta di William Shakespeare, invece, la giovane innamorata supplica il suo amore di “non giurare sulla Luna, quella bugiarda incostante che girando cambia faccia ogni mese. Anche il tuo amore sarebbe poi così variabile”. (Non dimentichiamo che in più di una lingua europea l’aggettivo lunatico, o con questa radice linguistica, indica chi non è mentalmente stabile o addirittura è pazzo).
Ad altri scrittori la Luna invece fu tramite di serenità e di sogno: se in un famoso canto Giacomo Leopardi la interrogava, chiedendole: “Che fai tu, luna, in ciel”, ne La sera del dì di festa la osserva nella pace: “Dolce e chiara è la notte e senza vento / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / posa la luna, e di lontan rivela / serena ogni montagna”. Così Johann Wolfgang Goethe l’aveva parimenti cantata: “Di nuovo inondi la cara valle / silente di luminosa bruma / e questa volta sciogli alfine / tutta l’anima mia”. E oltre un secolo dopo, troviamo i versi di Gabriele d’Annunzio: “O falce di luna calante / che brilli su l’acque deserte / o falce d’argento, qual messe di sogni / ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!”.
Una dimensione di dolcezza e di indefinito, che è irreversibilmente mutata dopo quell’impatto di cinquant’anni fa. Giuseppe Ungaretti commentò: “Questa è una notte diversa da ogni altra notte del mondo. Ogni uomo ha desiderato conquistare la luna”; ma è ancor più vero quanto ha ribadito Eugenio Montale: dopo l’allunaggio, la Luna ha perso il suo alone di mistero per i poeti. Una lunghissima epoca di sogni è finita.
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