La lunga storia delle fornaci di Volano

Nella piana di Volano, alla confluenza del rio Cavallo col fiume Adige, c’era l’insediamento di un paesino chiamato “Villa della Pietra” con una chiesetta dedicata a San Pietro che fu distrutto quasi completamente da un evento naturale. La storia dice che in un giorno imprecisato dell’anno 883 d.C. per cause inspiegabili (scossa di terremoto? piogge intensive?) il monte Barco franò piombando dall’alto con grande fragore, provocando uno sgomento indescrivibile. A Verona – si è tramandato – per tre giorni videro l’Adige rimanere asciutto. I detriti delle case del piccolo paese furono proiettati tutt’intorno e si ritroveranno secoli dopo sul fondo della palude che si formerà nel luogo del vecchio alveo dell’Adige tagliato a monte dalla frana: sono ancora visibili sotto i macigni in prossimità del “Mas dela fam”.

I cavatori di argilla (come Natale e Damiano Tovazzi) ci testimoniarono qualche anno fa che sul fondo vicino al greto vecchio del fiume Ades avevano trovato una grande trave lavorata sommersa, tegole romane e legname vario dei tetti di case. Un cavatore più fortunato scorse persino un gioiello d’oro con il quale fece fare un anello alla madre.

La prima fornace di Volano

Si è individuata a sud dell’altura chiamata “Dossus de stor” cioè “pianoro abitato” (stessa etimologia di Storo) dove sorsero le prime capanne abitate dall’uomo. Volano viene chiamato dai Celti “AVON-LAND” cioè “luogo dell’acqua”, Volano individua bene la sua palude piuttosto piccola, “el paluet” che offre la sua materia prima per produrrei i classici manufatti in argilla cotta col fuoco. Il piccolo territorio viene evidenziato dal torrentello “ISOL” (diminutivo di ISONZO) che scende sotto Saltaria, tra le bastie, i pozzati, e il fianco di Gardole, per dare origine al piccolo conoide detto “anconeta” che termina sulla strada romana, la Claudia Augusta Imperiale.

La fornace è davanti al De Stor dove i Furlini poi costruiranno casa. Il cotto dei mattoni romani assume delle colorazioni rosa giallastre che si distinguono nettamente dalle altre fornaci. Anche il formato dei mattoni romani era quasi doppio.

La toponomastica del Paluet, dove venne cavata la prima argilla, ora si evidenzia con una certa facilità poiché al centro del Paluet possiamo oggi osservare tutte le principali strutture sportive e comunitarie del paese: il campo da calcio, il campetto di allenamento, l’Oratorio, le bocce, e poco altro. I manufatti sono in mattoni di argilla proveniente dalla piccola palude; solo dopo la caduta del monte Barco viene l’abbondanza di argilla.

Le due grandi fornaci dei Rosi e dei Tovazzoti

Dove abbonda l’argilla sorgono presto le prime due grandi fornaci di Volano.

La prima, attorno all’anno Mille, è sicuramente quella dei “Rossis”, oggi Rosi; perché viene costruita sull’argine destro in prossimità della zona più bassa della palude dove per prima si è venuta a trovare l’argilla per la produzione dei manufatti in cotto. Più tardi sorgeranno quelle più a monte, dei “Tovazoti”, che sfrutteranno la parte più alta del bacino di argilla.

Quella dei Rosi viene costruita in sponda destra del vecchio alveo del fiume.

La dinamica è questa: il corso d’acqua fluviale interrotto consente al torrentello “Grollo” di produrre una diga di ghiaino che chiude il vecchio alveo fluviale, che poi, debitamente incanalato, può passare da sponda a sponda, chiamato “Aval”.

La fornace dei Rosi si trova così davanti un grande vascone del vecchio alveo, riempito abbastanza rapidamente dalla fluizione dell’argilla dai vari conoidi ai piedi dei monti sovrastanti.

La tecnica del recupero dell’argilla è ormai consolidata. Prima si deve togliere l’eventuale anche piccolo strato di terra nera, poi con enormi zappe si ritagliano zolle di argilla da caricare su carri che la trasportano all’aperto davanti alla fornace in banchi di accumulo. Ha così inizio lo scavo del primo vascone, di misure quadrate, che a una profondità di circa 2,5 metri raggiunge il ghiaione del fiume, rotto il quale, per la legge dei vasi comunicandi, inizia a ribollire al suo interno l’acqua del fiume. Riempito d’acqua, si lascia un piccolo argine e si riprende, con lo stesso procedimento, a scavarne un altro.

Ora si ripulisce l’argilla dalle scorie e la si ripone su enormi tavoli robusti. I fabbricanti di mattoni cercano di impastarla al meglio e poi, una volta pronti gli stampi dei vari manufatti, li si riempie d’argilla, provvedendo poi a togliere quella in esubero con un archetto provvisto di filo metallico teso. Sul piazzale si posano in buon ordine i manufatti ad asciugare al sole, pronti per la cottura. Gli stampi più impegnativi avevano i bordi superiori rivestiti con lamine di ferro, onde conservare a lungo lo stampo.

Nella seconda fornace, quella dei Tovazzoti, il modo di cavare l’argilla avveniva con una tecnica tutta particolare. I cavatori con enormi zappe dopo aver tolto lo strato di terra superficiale scavavano degli enormi vasconi fino ad arrivare all’ultimo strato appoggiato al vecchio ghiaione del fiume. Quando accidentalmente si rompeva anche quest’ultimo, iniziava a ribollire l’acqua nell’interno fino a raggiungere il livello dell’Adige che, seppur lontano, attraverso il ghiaione risaliva per la legge dei vasi comunicanti. Lasciando un piccolo argine tra una vasca e l’altra si poteva riprendere a scavare all’asciutto. E’ qui che nella parte più alta della palude, cioè vicino alla frana, si sono ritrovati i resti delle case spazzate via dalla frana. Dai racconti di Nereo e Natale Tovazzi si evince che tuttora al di sotto ci sono enormi travi lavorate, tegole romane ed altri reperti.

Un tratto di alveo più a valle, quasi riempito di cannetto, diventa “I Palui”, cioè la zona protetta dalla roccia a picco verso la montagna, e non scarica detriti. Pertanto a qualcuno è venuta l’idea di bonificare questa zona, facendo un impianto di ciliegi. In seguito in questa zona detta dei ziresi si è piantata la vite marzemina che dà un tipico marzemino, una qualità di grande pregio, detto anche “dei ziresi”.

Marco Bonifazi

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