La politica muscolare dei porti chiusi sta dimostrando tutti i suoi limiti
Qualche giorno fa Papa Francesco ha ricordato la sua visita all’isola di Lampedusa nella quale denunciò “la globalizzazione dell’indifferenza” dal molo dei migranti. Sono passati già sei anni da quell’atto di pietà e ancora sembra di essere nel pieno dell’emergenza, anche se gli sbarchi sono drasticamente diminuiti. Infatti, il tema dell’immigrazione è ancora al primo posto nelle priorità del nostro governo. C’è da chiedersi per quale motivo, al di là degli aspetti elettoralistici, i progressi in materia siano stati così scarsi.
Non vi è dubbio, come si ripete spesso, che quello dell’immigrazione sia una questione strutturale di “biblico” movimento di popolazioni, che richiede quindi tempi lunghi per essere compreso e gestito. Eppure qualcosa di meglio, nell’affrontare l’emergenza potrebbe essere fatto. Un salto indietro nella storia delle migrazioni può spiegarci la difficoltà del momento. Nell’agosto del 1991, poco meno di trent’anni fa, fummo tutti sorpresi dall’arrivo a Brindisi della nave “Vlora” con a bordo ben 27 mila albanesi in fuga dal loro paese: si dovette utilizzare lo stadio di calcio per ospitarli provvisoriamente. Il fenomeno di un esodo da quel paese, sconvolto dalla fine del comunismo, durò per parecchi anni, tantoché nel 1997 l’allora Presidente del Consiglio, Romano Prodi, decise una mossa estrema: occupare “militarmente” i porti di Durazzo e Valona per regolare i flussi di clandestini. Lo fece organizzando una missione navale europea, sotto guida italiana, che permise alla nostra Guardia Costiera e alla Guardia di finanza di presidiare i porti in questione, bloccando gli scafisti e disciplinando in loco le richieste dei migranti. L’elemento decisivo, allora, fu tuttavia l’accordo del pur fragile governo albanese, presieduto da Bashkim Fino, di accettare questo piano anti-esodo. Un vero e proprio piccolo capolavoro diplomatico e politico del nostro governo dell’epoca.
Oggi è abbastanza evidente che con la Libia le condizioni per un analogo modello di contrasto all’immigrazione clandestina non sono replicabili. La ragione è la mancanza di un unico governo a Tripoli in grado di stringere e fare rispettare un accordo del genere. In effetti l’esistenza in quel paese di ben due governi, Al Sarraj da una parte e Haftar dall’altra, rende estremamente difficile concordare assieme il controllo delle coste. Alcuni anni fa un’ipotesi del genere era stata avanzata anche dall’Unione europea con il varo della missione navale Sophia. Nella terza fase si prevedeva infatti di entrare nelle acque territoriali libiche per bloccare e catturare gli scafisti prima della loro partenza dalla costa. Ma la precondizione era il placet del governo di Tripoli, cosa rivelatasi impossibile a causa del progressivo indebolimento politico del legittimo premier Al Sarraj. Quindi la missione Sophia si è fermata al limite dei confini di mare della Libia e oggi, anche per volontà dell’Italia, è stata definitivamente sospesa.
Il ministro degli interni Matteo Salvini ha quindi deciso la politica muscolare dei porti chiusi, che tuttavia sta dimostrando tutti i suoi limiti. Ha, in altre parole, creato un clima di sfida all’O.K. Corral con conseguenze nefaste sull’immagine del nostro paese. Da una parte, infatti, le navi delle Ong forzano il blocco, sia per salvare vite umane, ma anche per fare prevalere il diritto internazionale ed europeo del mare che prevede il salvataggio dei naufraghi e l’approdo nel porto vicino più sicuro. Dall’altra parte gli scafisti cambiano modalità e vie di accesso al nostro paese, partendo da altre coste (la Tunisia) e con barchini difficilmente intercettabili dalla nostra Guardia costiera. La conseguenza è che aumentano i cosiddetti sbarchi fantasma rispetto ai piccoli numeri delle navi Ong. Contemporaneamente riprende la rotta Balcanica, via Grecia, fino a Trieste.
Di queste difficoltà si era reso conto il precedente ministro degli interni Marco Minniti, che alla voce grossa aveva preferito la via diplomatica. Con le Ong aveva cercato di addivenire ad una regolamentazione di cooperazione con la nostra Guardia costiera e al tempo stesso aveva chiesto di evitare interventi all’interno delle acque territoriali di Tripoli. Sul fronte libico, poi, oltre a fornire motovedette ed addestrare la loro polizia di frontiera, aveva deciso di coinvolgere direttamente i sindaci delle città costiere nel controllo e cattura dei mercanti di esseri umani. Una strategia che senza chiudere i porti aveva già da subito contribuito a fare crollare quasi dell’80% gli sbarchi in Italia.
Certo, anche questa era una politica di emergenza, ma almeno evitava l’isolamento del nostro paese nei confronti dell’Europa. Poiché sarà solo da una comune politica dell’Unione che potrà venire un allentamento della pressione migratoria. Ma perché ciò avvenga occorrono alleanze convinte e forti, soprattutto oggi alla vigilia delle nuove istituzioni di Bruxelles.
Procedere da soli contro tutti non conviene all’Italia, paese di frontiera dell’Europa nel Mediterraneo. Ma per ottenere collaborazione occorrono comportamenti meno antagonisti e più intelligentemente propositivi, tali cioè da creare consenso attorno ai nostri problemi, che poi, alla fine, sono problemi per l’intera Unione europea.
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