Si è evidenziata una minore credibilità dell’asse franco-tedesco in un quadro politico sempre più frammentato
Con un soprassalto di orgoglio, frutto di una lunghissima esperienza politica, la Cancelliera Angela Merkel è riuscita a rovesciare a proprio vantaggio i giochi delle nomine europee. L’indicazione della sua prediletta, ministro della difesa, Ursula von der Leyen a ricoprire la carica di presidente della Commissione e la contemporanea concessione alla Francia della presidenza della Banca Centrale Europea (BCE), Christine Lagarde, ha rimesso in piedi in un solo colpo l’asse franco-tedesco e ha ribadito il concetto che senza la guida della Germania l’Unione non va da nessuna parte.
Un colpo di genio è stata anche la proposta di nominare due donne ai massimi vertici dell’Unione, non solo perché si tratta di una prima assoluta nella storia comunitaria, ma anche perché nessuno ha avuto il coraggio di opporsi a questa novità. Eppure fino a qualche ora prima un vasto fronte di paesi sovranisti, fra cui l’Italia, si erano opposti al diverso schema, lungamente elaborato dal duo Merkel-Macron, di un socialista olandese, Frans Timmermanns, alla testa della Commissione e di un tecnico francese, il banchiere Villeroy de Galhau, a capo della BCE. Uno schema che dava meno peso a Berlino e a Parigi e che apriva parzialmente alla richiesta del Parlamento europeo di prendere in considerazione la procedura di collocare alla presidenza della Commissione uno dei candidati alle elezioni europee, cosa che si era verificata con Timmermanns, capolista dei socialisti europei. Malgrado ciò questa proposta originaria è stata accantonata. Questo episodio ha tuttavia permesso di mettere in luce una serie di crescenti debolezze dell’attuale assetto comunitario.
La prima è certamente la constatazione di una minore credibilità dell’asse franco-tedesco. Il presidente francese Emmanuel Macron, dopo i grandi ed ispirati discorsi sull’Europa, è oggi ripiegato su sé stesso in difesa della propria presidenza messa a rischio sia dalla non brillante situazione economica che dalla lunghissima rivolta dei gilet gialli.
Dall’altra parte, la sua “naturale” spalla tedesca, Angela Merkel, prima non ha risposto alle sue aperture europeiste e successivamente si è trovata lei stessa in difficoltà interne a causa degli scarsi risultati elettorali nazionali. I due tradizionali motori dell’integrazione europea, Francia e Germania, mostrano quindi crescenti difficoltà nel dettare ai propri partner le scelte da perseguire. Agiscono solo in modo tattico, cercando di portare a casa qualche risultato utile per sé stessi, ma senza la capacità di aggregare attorno a loro la grande maggioranza dei paesi europei e delle forze politiche più rappresentative. Si spiega così la debacle tattica della cancelliera Merkel, che con il suo piano originario non è riuscita a convincere né la necessaria maggioranza dei suoi colleghi di governo e neppure il proprio partito europeo di riferimento, il PPE. Anzi, quest’ultimo si è ribellato all’indicazione del socialista Timmermanns al posto del proprio leader, il bavarese Manfred Weber, che fra il resto si era piazzato primo alla testa del PPE nelle ultime elezioni europee, battendo proprio i socialisti.
Questa vicenda ci porta a sottolineare una seconda debolezza e cioè quella di un quadro politico europeo sempre più frammentato. Si ha un bel dire che queste ultime elezioni europee hanno confermato la schiacciante prevalenza delle forze europeiste: ci si consola sottolineando che i vari Salvini, Le Pen e alleati di estrema destra hanno messo assieme solo 73 seggi su un parlamento di 751, circa il 10%. Ma nella realtà le forze sovraniste sono molto più numerose e si mimetizzano all’interno stesso dei grandi partiti europeisti, come è il caso del partito nazionalista dell’ungherese Orbàn nel PPE o del premier ceco Babis all’interno dei Liberali europei. Sono poi da aggiungere a questo variegato fronte paesi come Italia e Polonia che si muovono al di fuori dei tradizionali schieramenti partitici comunitari. Facile quindi oggi mettere assieme questa molteplicità di interessi politici nazionalisti, allorquando per i motivi più disparati si debba semplicemente dire di no a proposte che vengono calate dall’alto. Infine, ed è questa la debolezza ancora più preoccupante, da tutti questi giochi è stato tagliato completamente fuori il Parlamento europeo, che ha dimostrato in questo periodo post elettorale tutta la propria inconsistenza politica. Eppure è il Parlamento di Strasburgo che legittimerà poi le nomine ai vertici europei, a cominciare dal presidente della Commissione che dovrà ricevere il voto di fiducia parlamentare per entrare in funzione.
Proprio per sottolineare questo fondamentale ruolo, il Parlamento europeo già nella precedente legislatura aveva inventato il sistema degli Spitzenkandidaten, cioè dei candidati guida dei partiti europei. Chi vinceva le elezioni, dava quindi al Consiglio europeo l’indicazione del nominativo per la presidenza della Commissione. Il Consiglio, quindi, per prassi doveva solo confermare la carica. Così era stato per Jean-Claude Junker il presidente uscente della Commissione. Oggi questa procedura è scomparsa del tutto. Se infatti, con la prima proposta del socialista Timmermanns in qualche misura si riconosceva l’indicazione uscita dalle elezioni (anche se arrivato al secondo posto dopo il popolare Weber), con la nuova proposta uscita inaspettatamente dal cilindro di Angela Merkel non si può davvero dire che Ursula von Leyen rispetti questo meccanismo. Non ha neppure partecipato alle elezioni europee. Non vi è dubbio quindi che lo spazio di potere sulla gestione delle cariche apicali, guadagnato con grandi battaglie dal Parlamento europeo, si sia oggi definitivamente chiuso. Non è questa davvero una buona notizia per chi tiene ad accrescere la democrazia in un’Unione sempre più guidata dai governi a scapito dell’unica istituzione rappresentativa fino ad oggi esistente.
Gianni Bonvicini
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