Lo scrittore Carmine Abate invita i giovani migranti (ma anche i trentini) a non sentirsi sradicati, ma a considerare una ricchezza anche le tanti radici sospese
Già venduto in 20 mila copie, l’ultimo romanzo dello scrittore calabro-trentino Carmine Abate merita di essere gustato quest’estate dai lettori di casa nostra. Non solo perché fra i protagonisti vi sono il missionario geologo moenese padre Elio Sommavilla e una leader somala ospite più volte delle nostre scuole, ma perché il vincitore del “Premio Campiello 2013” ha scelto coraggiosamente di raccontare – dopo la migrazione della propria famiglia e del proprio popolo – anche “il viaggio” dei nordafricani sbarcati sulle spiagge italiane. Fin dalla copertina “Le rughe del sorriso” (Mondadori) c’interpella con il viso pensoso di una richiedente asilo, Sahra, dallo storia solo in parte fantasiosa che Abate ha illustrato giovedì scorso in questo dialogo con alunni e docenti della scuola d’italiano “Penny Wirton”, promossa dall’associazione “Il Margine” presso il convento dei Cappuccini.
Carmine Abate, Lei in questo tredicesimo libro ha voluto affrontare un tema così scottante e divisivo. Perché?
Ci pensavo da tempo, ora ho capito che è urgente farlo. Ci rivedo la vicenda di mio nonno Carmine arrivato negli Stati Uniti nel 1903 e poi di mio padre finito in Germania a incatramare strade. Anch’io sono dovuto partire con la laurea nella valigia, ho vissuto per anni i problemi tipici di chi vive il viaggio “per costrizione” (discriminazioni, razzismo…), ma un giorno finalmente ho avuto un’illuminazione quasi miracolosa: ho capito che l’emigrazione è negli occhi degli altri. Sono gli altri che ti vedono diverso, immigrato, non sei tu che ti senti tale. Da allora ho deciso di trasformare una ferita – comunque incancellabile – in una ricchezza.
Resta un fatto che le proprie radici talvolta pesano…
Ma sempre negli occhi degli altri. Mi sono detto: io sono prima di tutto Carmine Abate… non sono calabrese, arbaresch (la minoranza di lingua albanese,n.d.r.) germanese, trentino, italiano, europeo… ma sono tutte queste realtà insieme. Non sono uno sradicato, senza radici. E’ vero il contrario: sono uno che ha più radici. Quelle più profonde sono in Calabria e nella mia lingua d’origine, ma poi ho visto crescere nuove radici, altrettanto importanti, quelle che definisco “radici volanti”, sospese. Comunque importanti nel determinare la mia identità di oggi. Ora posso vivere in poù monndi, fra l’altro ho imparato più lingue, senza dimenticare la mia.
Lei così invita a guardare all’esperienza migratoria in modo addirittura positivo.
Certamente, nonostante tutti i problemi incontrati. Vorrei che i giovani migranti capissero che con l’emigrazione hanno acquisito nuovi sguardi. Oltre a quello del posto da cui siamo nati e vissuti da bambini, possiamo acquisire uno sguardo diverso. Da allora ho deciso di vivere per addizione, aggiungendo, non sottraendo. Prendere il meglio dai vari mondi che ho vissuto, senza vivere il contrasto fra questi mondi, ma tenendoli insieme. Vivere per addizione vuol dire voler bene al Nord e al Sud, all’Italia e alla Somalia, alla Germania e alla Calabria.
Lei si è molto documentato sul campo, nei centri profughi e nelle località di accoglienza. Perché crede ancora nella forma del romanzo e nella sua particolare lingua?
Perché il libro non procede per tesi o per dati, come un saggio. Racconta una storia personale che diventa universale e che in forma romanzesca può essere forse più evocativa. E’ difficile stroncare un libro che racconta una precisa realtà.
Ci ha colpito in Somalia la nascita e lo sviluppo del villaggio di Ayuub (narrata anche in alcuni documentari), fondato nel deserto da una donna somala e don Sommavilla.
E’ una vicenda straordinaria perché questa donna musulmana somala e questo uomo cattolico italiano – due opposti per tanti aspetti – sono riusciti a mettere da parte i pregiudizi e a collaborare insieme arrivando a salvare negli anni migliaia di bambini. Questi sono eroi veri, hanno volutamente dato la loro vita e le loro energie. Se tu hai fatto sorridere un bambino in pericolo di vita . Mi diceva lei – allora sorriderei per tutta la vita. E ancora diceva: qualcosa si può fare, qualcosa si deve fare.
Vale per tutti?
Sì, vale anche per ciascuno di noi, abbiamo il dovere di fare qualcosa a favore dei migranti. Io ci provo con questo romanzo e con tanti incontri in Italia e all’estero. Però i più belli sono quelli in cui mi confronto con i giovani migranti, come qui oggi. E poi una vecchietta di Torino mi ha scritto dicendo che questo libro lo dovrebbero leggere quelli che dicono: io non sono razzista, ma….
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