«Non un’opinione o una scelta di pochi, bensì un diritto di ogni bambino» secondo gli esperti provenienti da diverse università
La nostra è una società basata su profondi squilibri di genere. Nel corso della storia le donne sono state a lungo considerate inferiori: non avevano diritto di studiare, votare, godere di una qualsiasi proprietà, esercitare alcune professioni … Oggi che molti squilibri sono venuti meno, persistono ancora diseguaglianze (in famiglia, nei percorsi educativi, nel mondo dello sport, della scienza, nella rappresentazione mediatica, nell'ambito della politica). E' vero che le donne sono sempre più presenti nel mercato del lavoro, ma secondo l'ultimo Global Gender Gap Report l'Italia è al 118° posto (su 144) rispetto alla partecipazione al mercato del lavoro e al 126° post per il divario salariale. L'analisi attenta di Barbara Poggio – prorettrice alle politiche di equità e diversità dell'università di Trento – al Convegno di venerdì scorso presso la Sala della Cooperazione su “Educare a riconoscere e valorizzare la differenza di genere” non lascia dubbi sull'urgenza di un'azione educativa al fine di superare gli stereotipi e le disuguaglianze ancora presenti nella nostra società, italiana e anche trentina.
Un'azione educativa che nel nostro contesto viene riconosciuta tra le “finalità e i principi generali” della scuola a partire dalla Legge Provinciale 5/2006 (nota come Legge Salvaterra) che, all'articolo 2 comma m, recita così: «Riconoscere e valorizzare la differenza di genere attraverso la realizzazione di interventi volti al sostegno delle pari opportunità tra uomo e donna», ma anche dalle leggi sulle pari opportunità e contro la violenza di genere.
E non si è fatta attendere la risposta del mondo dell’educazione, genitori e insegnanti: oltre 750 le iscrizioni online e una Sala della Cooperazione gremita. Più che comprensibile la soddisfazione degli organizzatori, l’università di Trento e i due Coordinamenti degli Istituti comprensivi e superiori, guidati rispettivamente da Paola Pasqualini (dirigente IC Trento 6) e Stefano Kirchner (dirigente Liceo Rosmini di Trento) che, in clima di azzeramento, da parte della Giunta provinciale, degli specifici progetti all’interno delle scuole, hanno sottolineato l’esigenza di “andare oltre l’elaborazione del lutto” per agire in autonomia trasformando il dettato normativo in azione educativa. «Un Convegno di parte?- si chiedeva Pasqualini – Assolutamente sì: dalla parte delle donne». E significativa è stata anche la presenza dei rappresentanti della politica locale – la vicesindaca di Trento, Annachiara Franzoia e l’assessora Chiara Maule con delega, fra l’altro, alle politiche per l’infanzia, iniziative formative rivolte ai genitori, ma in sala si è visto anche il fisico Roberto Battiston, candidato alle europee – e delle istituzioni (il delegato del questore) che, di fatto, hanno aperto la strada ad un cammino futuro.
Perché oggi, come ricordava Poggio, non si ferma ancora la violenza di genere, sia quella che potremmo definire “tradizionale” (psicologica, sessuale, economica) sia le nuove forme che prendono il nome di cyber-stalking, revenge porn, hate speech … Nel mondo 1 donna su 3 ha subito violenza: in Italia se ne contano 7 milioni (di cui il 10% prima dei 16 anni) e si registra 1 femminicidio ogni 3 giorni (il Trentino tutt’altro che esente, se nel 2018 sono stati denunciati 618 episodi di violenza). Si può leggere come un “fatto naturale” in linea con i padri del pensiero occidentale – Aristotole, Tommaso, Rousseau, ma anche da alcuni autori contemporanei (emblematico il testo della giornalista Costanza Miriano “Sposati e sii sottomessa”) – ma sappiamo bene che esiste anche una risposta diversa: il frutto di costruzioni sociali e culturali, e come tali, superabili. Perché «il genere rappresenta una costruzione sociale, un modo di classificare le persone definendo attitudini e attività sulla base di un corpo diversamente sessuato». Sulla stessa lunghezza d’onda Alberto Pellai, psicoterapeuta ricercatore all’università di Milano, autore di una serie di testi significativi fin dal titolo (come “Bulli e pupe” Feltrinelli 2016). C’è una differenza nel comunicare il maschile e il femminile? «Sì e i codici di stereotipo non fanno certamente bene ai nostri figli» è l’affermazione da cui ha preso le mosse, ma ha colpito la sala la confessione di essere diventato un “uomo migliore e più completo” entrando in sala parto alla nascita dei suoi 4 figli (“Da uomo a padre” il titolo di un altro testo, Angeli 2003). «La mano che ha accarezzato il proprio figlio fin dai primi momenti non si alzerà mai contro una donna» la sua tesi che rivelava come una «straordinaria prevenzione alla violenza di genere passi attraverso le mani dei padri» anch’essi impegnati nella cura dei figli.
Non è un caso che ci siano voluti anni di lavoro per istituzionalizzare una disciplina come la Pedagogia di genere e le pari opportunità, ambito di ricerca di Irene Biemmi all'università di Firenze, che ha ricordato come la scuola italiana appaia, almeno dall'esterno un luogo “rosa” Womenfriendly, tanto che, rispetto ad una società italiana ancora così prepotentemente sessista, la scuola sembra un'isola felice. Eppure i conti non tornano per via della segregazione formativa che dalle superiori si acuisce negli studi universitari e una femminilizzazione del corpo docente che porta ad una “penuria” maschile nel nostro sistema scolastico (740 mila donne, il 99,3% nella scuola dell'infanzia e il 96,3% nella primaria) che conta l'82,6% di donne, la quota più alta d'Europa, quasi che l'educazione fosse “affare femminile”.
Ancor più consistente è lo squilibrio nei libri di testo: secondo Sabatini (1987) esiste infatti un genere anche per gli aggettivi. Di un uomo di dice che sia “sicuro, coraggioso, onesto, ambizioso, saggio …”, mentre una donna sarebbe “leggiadra, vanitosa, civetta, smorfiosa, servizievole, delicata, docile …”.
Un motivo in più, parola di tutti gli accademici presenti, per mettere in atto una vera e propria “educazione alla parità di genere”: «non un'opinione o una scelta di pochi, bensì un diritto di ogni bambino». «Siamo in un periodo di grande cambiamento dove convivono diversi modelli identitari, tradizionali e innovativi – spiegava Giulia Selmi dell'ateneo di Verona – ma in questo vuoto di parole c'è il ruolo fondamentale della scuola (emerso anche dalla proposta dei “laboratori didattici” da parte di Maria Agnese Maio) per passare da una pedagogia latente ad una intenzionale così da giungere a pensarci come uomini e donne nella contemporaneità». Senza dimenticare che non si lavora solo per prevenire disagio, violenza e rischio bullismo, ma con l'obiettivo del raggiungimento di benessere, autostima, libertà, senso critico, costruzione di una cittadinanza attiva e consapevole dove l'alleanza scuola/famiglia diventa cruciale. E si torna alla nostra Legge provinciale 5/2006 dell'allora assessore Tiziano Salvaterra che recita sempre art. 2, comma l: «promuovere l'integrazione e la collaborazione del sistema educativo provinciale con il territorio e valorizzare la partecipazione delle famiglie».
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