Di loro abbiamo avuto sempre più bisogno negli ultimi vent’anni. Ora anche loro hanno bisogno di noi. Le collaboratrici familiari dell’Europa orientale hanno consentito di sollevare le nostre famiglie provate dall’invalidità improvvisa e cronica dei nostri anziani. Loro, imparando presto anche il dialetto trentino, li hanno assistiti, puliti, curati e spesso anche pianti, dopo averli accompagnati fino all’ultimo respiro.
Non hanno semplicemente “badato” ai nostri cari, è ingiusto chiamarle badanti. Anche questa è un’etichetta come tante generalizzazioni, suggerite da visioni retoriche (“angeli venuti dall’Est”) o pregiudiziali (“stipendiate profittatrici”), che non ci consentono di vedere i loro volti, la loro singolare personalità: chi è capace di dedizione instancabile, chi si lega in una reciprocità appagante; chi alla fine si piega sotto un peso inesorabile.
Non può essere ignorato dai Trentini l’appello lanciato dal cappellano delle donne ortodosse riunite nella chiesa di San Marco per la loro Pasqua il 27 aprile: crescono i loro problemi di salute, in sei anni le morti per tumore sono aumentate da una all’anno a una al mese, il disagio psichico comincia a farsi sentire.
“E un fenomeno molto allarmante per la nostra comunità – ha detto padre Ioan Lapastenau – specialmente per le donne giovani dai 30 ai 50 anni. Spesso lavorano 24 ore al giorno, sette giorni su sette”. Le attanaglia spesso la condizione psicologica imposta dalla distanza da casa e dai propri figli, quella “sindrome Italia” diagnosticata dagli psichiatri dell’Est che ha portato alla nascita di cliniche specializzate nella cura della depressione post-emigrazione per lavoro.
Allo sradicamento e alla nostalgia per la famiglia d’origine lasciata in Romania, in Ucraina o in Moldavia, che si traduce spesso in senso di colpa verso i loro figli left behind (lasciati indietro) definiti “orfani bianchi” o verso i loro stessi anziani genitori, si aggiunge un ulteriore dato di fatto per queste “donne con il cuore altrove”: quasi il dovere di nascondere o minimizzare le loro fragilità, le loro ansie e le loro malattie, non farle conoscere in patria, perché “altrimenti i nostri parenti si preoccupano”, come ha ammesso una signora ai microfoni di Cinzia Toller, la collega della Rai che ha “svelato” questo vissuto esistenziale sommerso dentro i nostri condomini o nei nostri paesi.
Ora anche l’Azienda sanitaria provinciale ha promesso di studiare questi dati epidemiologici relativi alle lavoratrici immigrate. Anche per verificare in che misura incidano nelle patologie insorgenti le condizioni stressanti di lavoro, il tipo di alimentazione e una trascuratezza rispetto: i referenti religiosi delle varie comunità di immigrate sono stati convocati per affrontare insieme l’emergenza.
Ma essa interpella anche le comunità cristiane trentine: per un dovere di riconoscenza verso queste signore che spesso si prodigano ben oltre quanto è dovuto dal contratto, ma pure per quel comandamento evangelico che viene prima di ogni rapporto lavorativo.
Sono il dialogo e la capacità di ascolto le condizioni per lasciare che si aprano le ferite psicologiche di queste mamme dai figli lontane (o figlie di genitori distanti), altrimenti tenute nascoste per dignità personale o per timore di perdere il lavoro.
Il 6 maggio fa l’ultimo “Libro bianco” sulle badanti in Italia – ormai siamo sui 2 milioni di lavoratrici, il 60 per cento lavora in nero purtroppo – ha richiamato questo “patrimonio da tutelare”, confermando peraltro la persistente difficoltà di dare un volto a queste presenze. E se non riconosciamo il volto non possiamo nemmeno pensare di poter arrivare al loro cuore ferito.
In queste sere di maggio, nel rosario affidato a Maria di Nazareth, “madre del dolore e della speranza”, possiamo inserire il volto di Ileana, Irina o Nicoleta, per tradurre poi quell’intenzione in un’attenzione concreta.