La riscoperta dell’economia civile

Un evento ricco di spunti, da riprendere, è stato il Festival nazionale dell’economia civile, svoltosi a Firenze a fine marzo. Ottanta relatori, 10 aziende «ambasciatrici», altrettante start-up e 4 scuole superiori hanno fatto luce su un approccio all’economia basato su una prospettiva di reciprocità e di fraternità, contrapposta al dominio del profitto e del mero scambio strumentale. Perché – è stato detto – il modello attuale non è più sostenibile. Questo approccio ha però origini antiche e italiane: deve il suo nome alle Lezioni di economia civile di Antonio Genovesi (Napoli, 1765) riscoperto, assieme ad altri autori del Settecento, da Stefano Zamagni e Luigino Bruni (2004).

Che cos’è, dunque, l’economia civile? È un insieme di attività molteplici, non proprie né del mercato né dello Stato «che vivono l’economia come incivilimento, avendo in comune un’attenzione nuova per le relazioni sociali, che la scienza economica tradizionale non vede» (Bruni, 2013). Esistono infatti due paradigmi: da un lato, l’economia politica di derivazione anglosassone; dall’altro l’economia civile, che ha avuto la sua culla nell’illuminismo napoletano (Zamagni, 2011). La differenza è nell’aggettivo: «politica» rinvia alla polis greca, mentre «civile» richiama la civitas romana. La prima è un modello di società tendenzialmente escludente (alla piazza, la mitica agorà, poteva accedere non più del 25-30 per cento della popolazione; le donne, gli incolti, i poveri, i servi erano tagliati fuori); all’opposto, la civitas romana è un modello che tende ad includere, nel quale potenzialmente tutti devono trovare il loro posto. Di qui le diverse visioni dell’economia: nella concezione anglosassone ci sono due blocchi, il mercato, a cui partecipano i capaci, i dotati (come nell’agorà della polis greca) e il welfare State, che raccoglie gli esclusi, i licenziati, gli inidonei. Nella concezione romana invece tutti devono poter lavorare, anche i disabili, grazie a un’adeguata organizzazione produttiva. In questo modello l’integrazione avviene con il lavoro, in quello anglosassone con l’assistenza.

Al bene totale, somma di utilità individuali, si contrappone così il bene comune, evocando S. Tommaso: poiché la società non è una sostanza, ma una relazione, il bene comune è di tutti e di ciascuno, e non deve mai togliere all’individuo quello che gli è essenziale per essere persona. Occorre perciò una nuova generazione di imprenditori che guardino non solo al profitto ma anche all’impatto sociale delle loro azioni, incarnandole nelle forme emergenti d’impresa, come le imprese cooperative, etiche, solidali e altre, che coltivano il valore di legame fra le persone. Il che non è appannaggio del volontariato, ma anche dell’impresa, e questa, secondo il direttore Leonardo Becchetti, è la vera novità del Festival.

Un suadente punto di vista, che suscita stimoli ma anche dubbi. Del tipo: le aspirazioni etico-sociali e l’economia non sono separate, come fine e strumento? Il coltello che taglia il pane può infilzare qualcuno: è una posata o un’arma, ma è lo stesso coltello, dipende da come lo si usa, e così l’economia. Far lavorare tutti? Bella soluzione se il lavoro c’è, altrimenti si avranno gli esclusi da assistere, come nel modello attuale. E ancora: se i beni prodotti non si finanziano con lo scambio, chi copre la perdita? Dubbi su cui torneremo. Per ora, però, non priviamoci dell’opportunità di farci mettere in crisi dalle visioni di grandi pensatori.

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