“Non vogliono dimenticare le loro origini e l’attaccamento alle cose è una pratica di resistenza”
Che cosa porteremmo con noi se dovessimo andarcene dalla nostra casa per sempre? Se dovessimo compiere un viaggio pieno di pericoli e incognite? La persona migrante diventa essa stessa bagaglio e porta "cucite" addosso non solo le ferite invisibili dei rischi affrontati e delle violenze subite mettendo in gioco la propria vita, ma anche ciò che durante il percorso non gli è stato tolto e lo accompagna sostenendolo: fotografie, tatuaggi, croci, santini, Bibbie, Corani, magliette della squadra di calcio in cui giocava nella sua città. L'identità è data anche da oggetti che ne definiscono la storia e misurano l'evoluzione di un "perimetro" mutevole nel tempo qual è la biografia di ognuno, e rispondendo a queste domande l'antropologo e archeologo trentino Luca Pisoni, studioso delle culture materiali e docente di lettere, ha avviato una ricerca originale che va oltre il significato simbolico delle cose per evidenziarne quello più importante del legame che esse concretizzano tra noi e gli altri. Ricerca poi confluita in "Il bagaglio intimo. Gli oggetti dei migranti in viaggio verso l’Europa" (Meltemi, 2019) in cui descrive quanto scoperto tra 2015 e 2016 dialogando con i migranti di passaggio al Brennero e con quelli accolti alla Residenza Fersina di Trento. Arricchito dalla prefazione di Massimo Vidale dell'Università di Padova e dalla postfazione di Christian Arnoldi dedicata agli "Oggetti della quotidianità", il saggio ha la forma di un racconto in prima persona e Pisoni ha raccontato la sua esperienza in un incontro svoltosi mercoledì 3 aprile alla Libreria Due Punti di S. Martino, a Trento: "Mi sono interessato a loro come persone che hanno progetti e ciò ha favorito il dialogo. Un ragazzo eritreo mi ha mostrato la Bibbia perché era un regalo della madre, e ho capito che gli oggetti hanno per loro un significato relazionale profondo". Come una sorta di "archeologia del presente", il libro, corredato da un'ampia documentazione fotografica, restituisce l'essenza degli oggetti che sono in grado di arginare almeno in parte la nostalgia di casa e aiutano ad affrontare le dure circostanze del viaggio. Tra di essi, croci, medaglioni in legno con gli arcangeli, mazze da cricket, vestiti tradizionali e lo smartphone, dentro al quale sono custoditi i ricordi più intimi, oggetto importante perché permette di mantenere il contatto con i familiari rimasti a casa e con parenti o amici già arrivati in Europa e per imparare a scrivere in italiano.
Nelle intenzioni dell'autore si tratta dunque di "decifrare" il significato delle cose in una condizione drammatica come quella dei viaggi della speranza: "Una volta attraversato il deserto e arrivati in Libia, proseguire e riuscire a portare qualcosa con sé è difficile perché lì vieni spogliato di ogni avere: un ragazzo si era cucito la fotografia della madre nel risvolto della giacca".
I migranti giunti alla Residenza Fersina hanno cercato di ricreare un ambiente che ricordasse casa, arredandolo con le bandiere nazionali: "Non vogliono dimenticare le loro origini e l'attaccamento alle cose è una pratica di resistenza. Anche l'arte aiuta: un pittore nigeriano ha presentato un ciclo di acquarelli, un modo utile per elaborare il periodo vissuto in Libia".
La ricerca compiuta mostra dunque che, come per ogni essere umano costretto a lasciare la propria casa, anche per i migranti gli oggetti più preziosi sono legati alla famiglia e alla casa, e poi alla religione e allo sport. Ricordando che anche i "naufraghi senza nome" sono persone, e come ha detto recentemente Papa Francesco: "Migranti è un aggettivo, le persone sono sostantivi. L'aggettivo va attaccato a un sostantivo, persona migrante, così c'è rispetto".
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