Nel «decretone» che istituisce il reddito di cittadinanza (Rdc) e quota 100, convertito in legge, c’è un articolo piuttosto complesso, inserito su proposta di Lega/5S/SVP, il quale, riconosciute le competenze dell’autonomia, stabilisce che le province di Trento e di Bolzano «possono prevedere, a decorrere dall'anno 2020, misure aventi finalità analoghe a quelle del Rdc», salvo comunicarle al Ministero per evitare duplicazioni.
In altre parole la Provincia, che in virtù del proprio speciale ordinamento aveva diligentemente anticipato lo Stato nel contrasto alla povertà, includendo nell’«assegno unico» provinciale una quota a sostegno del reddito, dovrà sospendere il proprio intervento per accodarlo a quello statale. Ciò comporterà un risparmio per le casse provinciali, molto gradito, stando al comunicato ufficiale, che lo stima in circa 10 milioni di euro, per effetto degli oltre 4 mila trentini che (presumibilmente) percepiranno il Rdc anziché l’assegno unico provinciale. «Vogliamo comunque mantenere gli attuali livelli di reddito garantiti ai nostri cittadini con più di dieci anni di residenza» – ha dichiarato il Presidente Fugatti: il che significa integrare il Rdc con l'assegno unico provinciale per circa 1.200 beneficiari, mentre per altri 4.900 nuclei, esclusi dal Rdc, non cambierà nulla.
Il risparmio di risorse è allettante, la tutela dell’autonomia lo sembra un po’ meno. La normativa provinciale sull’assegno unico deve infatti cedere il passo alla legge dello Stato, la quale interferisce in una competenza della Provincia, incuneandosi negli strumenti di assistenza creati da quest’ultima, e in certa misura spiazzandoli. È pur vero che ciò avviene per garantire in tutto il Paese i livelli essenziali di una prestazione sociale e che lo Stato la realizza sgravando la Provincia; ma è anche vero che autonomia significa agire, non farsi in là e tenersi i soldi. Agire, non essere aggirati, qui sta il problema.
Per inquadrarlo meglio bisogna risalire al decreto legislativo n. 266 del 1992, la norma di attuazione dello statuto che disciplina il rapporto tra leggi statali e provinciali. La norma sancisce che nelle materie di competenza della Provincia le leggi dello Stato non sono immediatamente applicabili, ma dev’essere semmai la legge provinciale a recepire le modifiche introdotte a livello nazionale, se vincolanti o migliorative; ma soprattutto stabilisce che in tali materie gli enti e le amministrazioni statali «non possono disporre spese né concedere, direttamente o indirettamente, finanziamenti o contributi per attività nell'ambito del territorio». Sono disposizioni che blindano un modello autonomistico di stampo federale: la Provincia riceve gran parte delle entrate tributarie e finanzia gran parte dei servizi pubblici, per cui non ha senso che lo Stato intervenga con misure puntuali a favore di cittadini e operatori trentini, come non ha senso che questi ultimi siano sballottati fra doppi sportelli pubblici, con relativa confusione burocratica. Se la Provincia viene scavalcata nella fornitura di servizi di propria competenza il modello si sbilancia, perdendo qualità e credibilità, nonostante le formali asserzioni normative. È una questione complessa, da non ingigantire (non sarà il Rdc a pregiudicare la nostra specialità) ma nemmeno sottovalutare: l’autonomia non vive di solo pane, ma anche della sua intrinseca coerenza, che ne fa laboratorio di buone politiche e non ingiusto privilegio.
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