E’ un tema che divide. Anche trasversalmente. La maternità surrogata – cioè, da dizionario, “il concepimento di un bambino/a impiegando gameti di una coppia che si affida ad una madre portante o di donatori (con donazione di ovuli o spermatozoi). Madre portante che presta il suo intervento solo per portare avanti la gravidanza e partorire” – in Italia è vietata.
Molte coppie che, per un motivo o per l’altro, non sono in grado di procreare vanno all’estero dove, ad esempio in alcuni Stati degli Usa, in Ucraina e Russia, la pratica è legale. Aprendo i cordoni della borsa, oltre che alimentando una sorta di “turismo procreativo”, visto che “operazioni” di questo tipo costano fino a 135mila dollari, se non di più, negli Stati uniti, per scendere a 40-45mila in Ucraina. Il dibattito sulla maternità surrogata interroga le coscienze. Sia sulla pratica in sé che sull’uso del corpo della donna che si presta, dietro compenso e sottoscrivendo un contratto, a fare da incubatrice, in particolar modo se indotta, specialmente in alcuni Paesi, ma non è detto, esclusivamente da motivi di necessità, causa povertà. Ed è carsico. Riemerge quando, ad esempio, vi sono problemi legali per il riconoscimento del certificato di nascita e la coppia finisce in tribunale. Negli ultimi anni ha destato clamore il caso del politico Nichi Vendola, gay dichiarato, che, con il suo compagno, è ricorso all’”utero in affitto” per avere un figlio. Giovedì scorso l’associazione Corposoggetto ha promosso a Trento, nella sala circoscrizionale della Clarina, una serata dal titolo “Non si affitta, non si vende” alla quale ha partecipato Monica Ricci Sargentini, giornalista del Corriere della Sera, che a più riprese si è occupata dell’argomento. Pubblico sparuto e relatrice competente, cresciuta professionalmente prima a “Noi donne” e poi all’Unità, che ha ricsotruito un quadro preciso e itneressante. Premettendo che “non ci sono statistiche attendibili perché si tratta di un mercato sotterraneo”, per quanto in internet si trova di tutto (compresa una tesina di laurea sull’argomento discussa alla Luiss), ha affermato che “si tratta di un business, tra cliniche, agenzie e mediatori, in ascesa esponenziale, di cui si parla poco, che non “buca” lo schermo, una pratica di sfruttamento, una mercificazione del corpo della donna”. Ha proseguito sostenendo che “in Italia il dibattito è falsato visto che la narrativa prevalente è quella del “dono” e che il mondo omosessuale ne ha fatto una bandiera. Invece, è un argomento che riguarda i diritti umani”. “Ci sono anche i casi – ha proseguito – delle surrogate seriali. Una donna ha affittato il proprio utero 8 volte e poi è morta. Un’altra è arrivata a 12. In molti casi ci possono essere delle complicazioni. Altro che “il corpo è mio e lo gestisco io””.
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