Non volsero il capo

Parla la figlia di Odoardo Focherini. “Mio padre non era un eroe, ma semplicemente un cristiano”

Odoardo Focherini, di origini trentine e residente a Carpi, in Emilia, fu deportato dai tedeschi l’11 marzo 1944. Quando morì per gli stenti, per la fame e per una setticemia il 27 dicembre di quello stesso anno, i suoi sette figli erano ancora in tenera età. La più grande, Olga, aveva 13 anni; Maddalena 11 anni; Attilio, 8; Rodolfo 7; Gianna 5; Carla 3 e Paola appena un anno e mezzo.

E’ proprio Paola Focherini, la più piccola dei figli di Odoardo Focherini (è nata il 1 agosto 1943) a raccontarci la storia di suo padre, le vicissitudini in cui si è trovata coinvolta la sua famiglia. Comprese le ultime notizie che riguardano ad esempio la morte recente della sorella Maddalena, la secondogenita, che “ha saputo concretizzare la testimonianza dei genitori nell’operare quotidiano” nella sua professione di medico anestesista; o il fatto che è stata posta da pochi giorni la Pietra d’Inciampo dedicata ad Odoardo a Mirandola, davanti alla casa dei Focherini.

La famiglia di Odoardo era originaria di Celentino di Pejo in Val di Sole, mentre quella della moglie, Maria Marchesi, proveniva da Rumo, in Val di Non. “A Rumo ed a Pejo ci hanno molto aiutato – osserva Paola -. Una nostra vicina ci procurava latte, patate, erbe buone, a Marcena di Rumo abbiamo trovato tante persone buone e generose”.

Quando suo padre morì, la mamma si ritrovò con una famiglia numerosa, tante bocche da sfamare e in quelle vallate trentine che tanto piacevano ad Odoardo e a Maria – le gite in montagna, la tranquillità dei posti, i paesaggi incantevoli – trovarono gente semplice che senza tante parole, quasi con ritrosia, arrivavano a mostrare fatti concreti di vicinanza. “Adesso siamo rimasti in tre e tutti noi, compresi nipoti e pronipoti, siamo innamorati di Rumo, appena possiamo veniamo da Carpi in quei posti incantevoli”.

Odoardo Focherini, già impegnato in tante opere di bene, dopo l’8 settembre del 1943, nella pianura emiliana, aveva intensificato ancora di più il lavoro nell’Azione Cattolica e nel mondo dello scautismo; manteneva il suo lavoro nelle assicurazioni e al contempo era diventato pure una sorta di amministratore delegato del giornale “L’Avvenire d’Italia”. Quando il direttore, Raimondo Manzini (che poi sarà direttore dell’Osservatore Romano) viene a sapere di ebrei che erano in pericolo di vita, non esita a rivolgersi ad Odoardo – che era anche amico di don Zeno Saltini che poi fonderà Nomadelfia – insistendo che poteva far conto di una persona fidata.

Focherini si dà un gran da fare, non si risparmia, pur sapendo degli enormi pericoli cui andava incontro ogni giorno. Stampa carte d’identità in bianco, inventa dati falsi da consegnare ai perseguitati per una via di fuga sicura verso la Svizzera. E’ un’organizzazione efficiente quella che costruisce. Riesce a mettere in salvo più di un centinaio di ebrei, facendoli oltrepassare il confine. I tedeschi si insospettiscono, lo pedinano e lo incastrano.

Viene preso e condotto al campo di Fossoli, in Emilia, da dove scrive ad un amico: “Se tu avessi visto, come ho visto io in questo carcere, come trattano gli ebrei qui dentro, saresti pentito solo di non averne salvato di più”. Di lì, insieme ad altri, inizia la sua strada di “Resistenza e Resa”; il carro piombato dei nazisti fa tappa a Gries, Bolzano. Poi a Flossenburg (dove in quei stessi mesi era rinchiuso Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano della Chiesa confessante tedesca che aveva detto: “Noi cristiani non possiamo cantare il gregoriano se non difendiamo gli ebrei”) e infine al sotto campo di Hersbruck.

Dopo pochi mesi muore all’età di 37 anni, il 27 dicembre 1944, per una setticemia in seguito alla ferita ad una gamba.

“Mio padre non era un eroe – osserva oggi la figlia Paola -, ma semplicemente un cristiano. Un cristiano coerente”. “A questo ci teneva tantissimo. E ha sempre condiviso le sue scelte con la mamma. Le ha chiesto il permesso per salvare gli ebrei e la moglie ha condiviso in pieno quel piano. Nostra madre diceva: noi e i bambini abbiamo il pane, abbiamo un letto per dormire, una casa, loro no! Non ho mai sentito da mia madre un lamento, una insofferenza, un “uffa”. Ha sempre condiviso tutto con il suo Odoardo”. Che dal campo di prigionia riuscirà a fare uscire ben 166 lettere (da poco raccolte in un libro) e in una invia all’amata Maria queste parole: “ Ti sono vicino con il cuore, con il pensiero, con il desiderio. Non siamo mai stati così intimamente uniti come ora che siamo così lontani. Sappi che penso molto di più a te e ai nostri figli che a me stesso”. E ai ragazzi e alle bambine scrive per tenere alto il morale: “Indovinate dove mi trovo, è molto semplice. Al mio ritorno il vincitore avrà un premio. Ma niente imbrogli”. La calligrafia è chiara, i testi sovente criptici per sfuggire alla censura. Ed è una via crucis evidenziata dal tratto e dal fraseggio che diviene sempre più scabro, scarno, essenziale. Focherini sa bene che non ha più via di scampo, che non ritornerà. La sua fede, già salda, che lo ha animato nei suoi giovani anni, diventa una roccia a cui aggrapparsi nella bufera che arriva. Fino a fargli scrivere, poco prima di morire: “Offro la mia vita in olocausto per la mia Diocesi e per l’Azione Cattolica”.

Il primo riconoscimento alla sua memoria è del 1955. Nel 1969 viene dichiarato “Giusto d’Israele”, a Rumo gli viene intitolata la Scuola primaria, e successivamente è proclamato “Beato”, quest’uomo che a 37 anni ha dato la vita per gli altri.

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