L’ebrea boema di Wolftraud

Sono belle, eleganti, con il cinturino di pelle e il bottone d'avorio tipico per la moda degli anni Venti, parlano di un periodo felice, di viaggi, di pranzi in ristoranti. Ora sono strappate, bucate, infangate, rotte per la camminata nella neve, simbolo di uno strappo esistenziale tra la vita di prima e quella di adesso. Una vita che sta per finire mentre la donna che le indossa compie i suoi ultimi passi, il corpo sferzato da un gelido vento, nessuna possibilità di riparo o fuga.

Inizia con un incipit che immerge subito nella cruda realtà, "Le scarpe di Klara" (Publistampa, 2018), romanzo basato in parte su fatti reali e in parte sull’immaginazione, con rimandi alla biografia dell'autrice, Wolftraud de Concini, già autrice di "Boemia andata e ritorno (Publistampa, 2013), libro in cui ha riallacciato il legame con quella che considera ancora sua patria nonostante tutto. De Concini fu costretta, infatti, ad abbandonare la Boemia con la sua famiglia a soli cinque anni, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando i cecoslovacchi appartenenti alla minoranza di lingua tedesca vennero espulsi, ma la condizione di esilio non ha generato alcun risentimento. La scrittrice e fotografa, che dal 1964 vive in Italia dopo essere cresciuta in Germania, lo ha più volte sottolineato durante la presentazione del libro, dedicato "alla mia dolce Boemia", martedì 9 ottobre in dialogo con Iole Piva alla Biblioteca comunale di Trento.

Arricchita dalle illustrazioni di Otilie Šuterová Demelová, la “Storia di un’ebrea boema” nasce da un incontro particolare, avvenuto nel 2015, quando de Concini andò a Pilsen, allora capitale europea della cultura, e visitò una serie di appartamenti appartenuti a famiglie ebree, rimanendo colpita dalla fotografia che ritraeva Klara Beck, nata il 4 novembre 1904 a Pilsen e uccisa nel gennaio 1942 in un bosco vicino a Riga. Le scarpe accompagnano l’esistenza di Klara: sono un regalo del marito, diventano un richiamo ad una fase della vita serena per la donna – cresciuta in una famiglia della borghesia ebrea benestante, frequenterà la scuola di fotografia a Vienna e si sposerà con l’architetto Adolf Loos -, a cui ne seguirà una di stenti, fino alla persecuzione, alla deportazione nel campo di Terezin il 10 dicembre 1941 e alla morte. De Concini ripercorre le tappe della sua breve vita alternando passato e presente in un quadro in cui la vicenda individuale è ricompresa in quella collettiva che vide milioni di ebrei perseguitati e deportati nei campi di concentramento, procedendo con la misura sapiente dell’occhio fotografico che coglie e seleziona gli elementi essenziali, traducendoli in una prosa fatta di brevi frasi, asciutta ma densa e coinvolgente.

Un libro che interroga sul significato della dignità umana e sulla necessità di vigilare in ogni momento affinché quanto successo al popolo ebreo non si ripeta: anche se sono passati oltre 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, ammonisce l'autrice, le atrocità commesse in quel periodo non devono essere dimenticate.Così come non devono essere negate o ignorate le sofferenze di chi oggi, come allora, costretto ad andarsene dalla propria terra sperimenta la condizione di profugo, la perdita dell'identità, la morte durante il viaggio, la fatica di ricostruirsi una nuova vita.
vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina