La consulente Sarah Maule ci spiega i significati del portare partendo dall'importanza di riconoscere i bisogni, del bambino tanto quanto della mamma… o del papà
In inglese rende meglio: babywearing significa “portare i bambini addosso”, principalmente con la fascia. È una pratica antica, da sempre usata dalle madri di tutto il mondo per portare i propri figli e spostarsi insieme a loro. Anche in occidente un tempo si “portava”. Dopo essere quasi scomparsa, in Europa questa pratica è stata riscoperta negli anni '70 e oggi, rivalutata, vive una rinnovata diffusione.
Nella Settimana Internazionale dedicata al “portare i bambini” (dal 7 al 13 ottobre) ci introduce in questo mondo, che non è fatto solo di legature e nodi ma soprattutto di relazione e ascolto, Sarah Maule, attiva da qualche anno in Trentino come Consulente certificata della Scuola del Portare, collaboratrice dell'Associazione “L'acqua che balla”.
Anche la scienza, lo studio dei riflessi del neonato e dei suoi bisogni nella fase dell’esogestazione (cioè nei primi 9 mesi di vita), ci dice che noi mammiferi primati siamo fatti per essere “portati addosso”. Ma non si tratta solo di “trasportare”: dietro alla fascia c'è un significato che sostiene una precisa scelta pedagogica. “Il portare – spiega Sarah Maule – si inserisce nella risposta ai bisogni primari, primo fra tutti il bisogno di contatto, che nella nostra cultura è arrivato addirittura ad essere etichettato come vizio”. Nell'abbraccio della fascia il neonato, a contatto con l'adulto, soddisfa il suo bisogno e riceve calore, mentre il contenimento e il movimento continuo gli richiamano l'utero materno, facendolo sentire nel suo “posto sicuro”. La fascia facilita anche le mamme: per esempio permette loro di uscire di casa senza troppi ingombri o di avere le mani libere prendendosi cura contemporaneamente del bambino. “Soprattutto, è un modo per conoscersi: più la mamma sta insieme al suo bambino, più in fretta imparerà a cogliere i suoi segnali di disagio e intervenire prima che arrivi il pianto. E meno pianto significa meno frustrazione e più serenità, per tutti”.
“Il portare è dunque uno strumento a sostegno della relazione”, chiarisce la consulente Maule. È ascolto e riconoscimento dei bisogni del neonato e del bambino, ma anche riconoscimento e rispetto dei bisogni della mamma: “Non è detto che sia lo strumento giusto per tutti: ciò che conta veramente è riconoscere ciò di cui c'è bisogno, poi ognuno troverà la sua risposta. Tra l'altro, fascia e passeggino non si escludono”.
La pratica del portare è incoraggiata fin dalla gravidanza: si può portare in fascia già il pancione, per sostenerlo e impratichirsi; il neonato si porta sempre davanti fino a quando non controlla la testa, poi si passa sul fianco e infine, quando il bambino ha un buon tono muscolare del tronco e un crescente interesse verso il mondo, si porta sulla schiena. “È il bambino che si farà capire e scandirà i vari passaggi, in accordo con la mamma che lo porta. Quando il piccolo viene portato sulla schiena – racconta ancora Sarah Maule – esce dalla zona di controllo visivo della mamma, che deve quindi imparare a sentirlo. È difficile per noi, perché non siamo stati portati”.
Qui si inserisce il compito della consulente del portare, che si fa ponte con una cultura dimenticata accompagnando i genitori a ritrovare l'istintiva capacità di portare addosso i propri “cuccioli”. Il lavoro delle consulenti – sostenuto non solo dall'esperienza ma da una formazione in continuo aggiornamento – è insegnare ai genitori a “portare bene”: significa portare correttamente, rispettando le caratteristiche ergonomiche del bambino e le esigenze di chi porta; significa inserire la pratica nella relazione tra chi porta e è portato; e farlo con lo strumento adatto. La consulente non ha interessi commerciali, ma si sa orientare nel vastissimo mondo delle fasce, dei marsupi e dei mei-tai: diversissimi per misure, tessuti, filati, devono comunque avere caratteristiche ben precise.
E i papà? Anche loro portano, seppure molto meno. Generalizzando: preferiscono portare sulla schiena, e con il marsupio. “Ma ci sono papà che portano fin da subito – racconta Sarah Maule – e sono i percorsi più belli. Portare il neonato permette al papà di avere il 'sentore' del pancione, di costruire una relazione che altrimenti forse non avrebbe, di cogliere quei segnali che di solito capisce solo la mamma, e di allenarsi a 'sentire di pancia' mettendo da parte la razionalità, visto che con un neonato ci si relaziona solo a livello emotivo”. Anche il bambino “sente” lo stato d'animo e l'emotività di chi lo porta, nel bene e nel male. “Anche per questo a volte, quando si inizia a provare la fascia, il neonato coglie la tensione muscolare della mamma e segnala che qualcosa con va, piangendo, e scoraggiando alcune mamme che, invece, devono solo fare un po' di pratica”.
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