Il caos libico difficilmente – purtroppo – cesserà nel breve termine. Sì, qualche tregua armata, qualche sparuta reminiscenza di pace, ma – ahinoi! – in Libia ci sono troppi interessi contrapposti e confliggenti in questo momento. Interessi economici prima di tutto, il controllo dei pozzi petroliferi e di gas; la proliferazione del commercio delle armi, armi che girano a bizzeffe – di ogni tipo, di ogni calibro, quasi un micidiale pane quotidiano, indispensabile e promettente lucro facile e garantito -; il lugubre e tragico commercio degli esseri umani.
E anche qui, nel traffico dei migranti, sono cifre da capogiro che circolano, soldi a palate, soldi facili, a bassissimo costo, che rendono moltissimo. A farne le spese è la popolazione civile, le donne, i bambini, gli anziani che devono sopportare pesi insopportabili, la precarietà quotidiana, una guerra guerreggiata che non finisce mai, l’abbattersi brusco della speranza per ciascuno e per ogni minuscola comunità – i maschi adulti sono fin troppo impegnati nella militanza delle fazioni contrapposte, armate fino ai denti e, appunto, contrapposte e in guerra continua per il controllo del territorio. Territorio che in alcune zone vale zero, mentre in altre vale oro colato.
Mio padre che aveva fatto la guerra d’Africa – dal tranquillo controllo del deserto fino alla battaglia finale di El Alamein, tra fine ottobre e primi giorni di novembre del 1942, dove era stato ferito ad una gamba e riportato a Napoli, in un ospedale – mi ripeteva spesso che i libici sono di una mitezza impensabile, ma se li tocchi nei loro interessi diventano vipere. Se poi si somma questa ferocia tribale agli interessi delle potenze europee – in primis la Francia, con un continuum pazzesco da Sarkozy, ad Hollande a Macron – l’ecatombe è fatta. La triste lezione jugoslava dell’inizio degli anni Novanta del secolo scorso evidentemente non ha insegnato niente. Uomini delle caverne.
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